Quei rendimenti dei Btp oltre quota 6% campanello d’allarme del rischio bancarotta

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Più che un campanello d’allarme è una sirena. Lo Stato italiano che, da questa settimana, si trova a pagare oltre il 6 per cento di interesse sui suoi Buoni del Tesoro decennali non è solo un record nell’era dell’euro: è il segnale che si è raggiunta una soglia estremamente pericolosa. Se vale l’esperienza che i navigatori dei mercati finanziari hanno tratto dagli ultimi due anni di crisi del debito pubblico europeo, siamo molto vicini al limite, oltre il quale la speculazione diventa fuori controllo e, se non si riesce rapidamente a ridimensionare il costo dei titoli, si aprono solo le strade del salvataggio europeo o della bancarotta.
Il primo allarme rosso viene dai mercati secondari, quelli in cui i titoli italiani vengono scambiati, giorno per giorno, dopo l’emissione. Venerdì, praticamente all’indomani del vertice europeo che dovrebbe salvare l’euro e l’Italia, i prezzi dei Btp hanno subito uno smottamento, che ha fatto salire i rendimenti (i quali si muovono in direzione inversa ai prezzi) oltre il 6 per cento. Ciò che conta è che, di fatto, sono tornati al livello del 20 ottobre, come se gli interventi d’emergenza dei governi europei e gli impegni assunti dal governo italiano nei giorni successivi non fossero mai esistiti. L’Unione europea può benedire la manovra italiana, ma i mercati, almeno per ora, non la bevono. Dato che, nella situazione attuale, più dei fatti concreti e dei provvedimenti annunciati contano le aspettative psicologiche, se ne deduce che l’Italia sconta una crisi di credibilità . Berlusconi può fare la faccia feroce sui tagli alla spesa, sui licenziamenti, sulle privatizzazioni, ma i mercati, per il momento, non lo prendono sul serio, al contrario di quanto avviene con il governo spagnolo, oggi ai margini del ciclone.
Il secondo allarme rosso viene dai mercati primari, cioè quelli a cui si rivolge il Tesoro quando emette titoli nuovi di zecca. Qui gli attori principali sono un po’ diversi da quelli dei mercati secondari: si tratta, per lo più, di banche, fondi pensione, insomma, non proprio la prima linea della speculazione. Tuttavia, nell’asta di venerdì, il Tesoro, per collocare i titoli, ha dovuto offrire rendimenti superiori al 6 per cento. E’ uno scalino di oltre quindici punti percentuali, rispetto all’asta di un mese fa. L’elemento significativo è che sul mercato primario, al contrario di quanto avviene su quelli secondari, la Banca centrale europea non interviene, per evitare di essere accusata di stampare moneta per finanziare i debiti dei governi. Di fatto, senza l’ombrello della Bce, il debito italiano ha subito un secco crollo.
Il problema è che, sui mercati finanziari, le aspettative spesso si realizzano: il pessimismo sull’Italia, facendo salire il costo del debito, rende più difficile l’aggiustamento e, di conseguenza, più facile il crollo. L’Italia rischia di pagare assai cari smottamenti come quelli di venerdì. Il 29 ottobre dell’anno scorso, il debito italiano costava circa il 4 per cento, due punti in meno di adesso. Ancora a giugno, i rendimenti erano inferiori al 5 per cento. La differenza equivale a moneta sonante. Nei prossimi 12 mesi, l’Italia emetterà  titoli per 250 miliardi di euro circa. Se le quotazioni resteranno inchiodate al 6 per cento, il Tesoro si troverà  a pagare 5 miliardi di interessi in più, rispetto a quanto avrebbe pagato un anno fa. Rispetto a giugno scorso, il maggior costo è vicino ai 3 miliardi di euro. Le manovre del governo per risanare la finanza pubblica e raggiungere il pareggio di bilancio rischiano di essere volta a volta svuotate dal maggior costo degli interessi, costringendo via via lo stesso governo a rimpolpare, con nuove misure, la posta e a rendere sempre più soffocante l’austerità .
Ma non è detto che i rendimenti restino inchiodati al 6 per cento. E le prospettive si fanno buie. Analisti ed esperti di mercato hanno calcolato che, nel caso di Grecia, Portogallo e Irlanda, la situazione è precipitata, costringendo l”Europa ad un vero e proprio salvataggio, quando i rendimenti sui rispettivi titoli sono arrivati al 7 per cento. Ma hanno anche verificato che, man mano che i rendimenti salgono, la deriva diventa sempre più veloce: ci vuole più tempo per passare dal 5 al 5,5 per cento, di quanto ne occorra per passare dal 5,5 al 6. Ancora meno dal 6 al 6,5 e, poi, al 7 per cento. Alla fine, l’ultimo crollo è questione di due-tre settimane. Per fermare la frana, probabilmente, l’Italia non può permettersi di aspettare Natale.


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