“Noi cristiani, massacrati dall’esercito” tra i copti del Cairo sopravvissuti alla strage
IL CAIRO – Cosa si può vedere di peggio, dopo che si è visto un uomo condotto per le braccia da un gruppo di scalmanati, mentre altri uomini s’avvicinano e lo prendono a calci, a pugni, a bastonate, finché non crolla sulle ginocchia come un San Sebastiano colpito dalle frecce? Cosa può esserci di più violento di un blindato della polizia che punta su un gruppo di inermi dimostranti e letteralmente li “spiana” prima che possano scansarsi? Queste immagini, raccapriccianti e minatorie insieme, sono rimaste sui telefonini dei manifestanti che domenica sera hanno assaggiato il pugno di ferro dei militari al potere ed oggi passano di mano in mano tra la folla raccoltasi davanti all’ospedale copto di Abbassya come testimonianza di un calvario collettivo, o come i sintomi premonitori di una guerra civile strisciante.
Una caccia all’uomo. Questo, secondo le testimonianze dei copti, è quel che è successo nei pressi del Palazzo della Tv di Stato, l’unica emittente, sia detto per inciso, autorizzata a “coprire” gli incidenti di domenica sera. Fermato, umiliato, persino molestato sessualmente, Hani Bushra, egiziano con passaporto americano, racconta come sia stato derubato della croce d’oro che teneva al collo appesa ad una catenina, quando era nelle mani dei militari. «Mi colpivano mentre dicevano di volermi proteggere. Un poliziotto in abiti civili mi gridava: cane. Un altro: ” Nossrani “, cristiano, spregiativamente».
«Dopo che mi hanno portato in un palazzo di appartamenti – continua Hani – ho visto nella portineria quattro corpi che gli infermieri delle ambulanze egiziane non potevano portare via perché erano ridotti in pezzi. Quando ho chiesto ai miei guardiani, con i quali dopo due ore di umiliazioni ero riuscito a stabilire un contatto, chi fossero, mi hanno detto che erano tre cristiani e un musulmano uccisi dall’esercito a colpi di arma da fuocoe travolti da un blindato. Perché questo va detto, i soldati e non i poliziotti hanno sparato sulla folla».
Davanti all’ospedale di Abbassya, vicino alla Cattedrale dove il papa dei copti Shenuda, ha proclamato tre giorni di digiuno penitenziale «per riportare la pace tra cristiani e musulmani», ci sono ancora le carcasse delle macchine date alle fiamme durante gli incidenti. La nettezza urbana, impegnata a ripulire le strade lungo il Nilo su cui si affaccia il blindatissimo palazzo della Tv, Maspero viene chiamato, non ha fatto in tempo ad arrivare fin qui. «Perché i soldati non hanno usato gli stessi metodi contro i salafiti e i Fratelli Musulmani, quando sono scesi in piazza? Questo non è più il mio paese», grida un giovane.
I segni della battaglia rimangono fuori e dentro l’ospedale copto dove sono stati ricoverate molti dei 329 feriti. Il conto dei morti, secondo il ministero della Sanità s’è fermato a 25, ma qui la gente dubita che tra le vittime vi siano stati anche tre militari, come ha ripetuto continuamente la Tv di stato.
La sensazione è che, a differenza di altri scontri a sfondo religioso, stavolta non sarà facile ristabilire la calma. Innanzitutto perché la verità su quel cheè successo domenica notte, chi sia stato ad innescare gli incidenti e perché, latita. Né può essere d’aiuto l’indice accusatore che il primo ministro Essam Sharaf, troppo cauto e diligente nell’ubbidire alle direttive del Consiglio Supremo delle Forze armate, punta contro non meglio precisati «maligni cospiratori» impegnati in un «complotto per far saltare la transizione alla democrazia». Perché una diagnosi siffatta, se così si può dire, non soltantoè il ritornello di tutti i dittatori, ma ignora il profondo, generale scontento diretto verso gli uomini incaricati di traghettare il paese verso la democrazia. Gli scioperi si susseguono (gli ultimi a scendere in piazza qualche giorno fa sono stati gli insegnanti).
L’insicurezza per le strade aumenta perché i poliziotti, davanti a una qualsiasi violazione della legge, preferiscono voltarsi dall’altra parte. L’economia ristagna. Ma, soprattutto, giunta militare e governo provvisorio non sono riusciti ad indicare un chiaro percorso politico e istituzionale verso l’auspicato cambiamento di regime. Il fatto, ad esempio, che giunta e governo abbiano deciso di abrogare l’articolo 5 della nuova legge elettorale, che riservava un terzo dei seggi in Parlamento ai candidati indipendenti, è stato interpretato come un pessimo segnale a favore dei partiti organizzati come i Fratelli musulmani. Adesso, con il rischio di altri scontri inter religiosi, lo spettro di un piano di destabilizzazione agitato dallo stesso governo e la sfiducia persistenti fra quelli che hanno molto sperato dalla rivoluzione, c’è il rischio che anche il confuso processo di transizione ipotizzato dai militari si perda per strada. Per questo, uno dei più loquaci candidati alle presidenziali di non si sa quando, l’ex ministro degli Esteri e Segretario della Lega Araba, Amr Mussa, ha chiesto ieri sera che le elezioni per eleggere il nuovo padrone dell’Egitto vengano fissate il prossimo primo di aprile. Ironia involontaria.
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