“Black bloc figli del precariato diamo risposte o sarà un’escalation”
Un attempato ammiratore degli incappucciati l’ha aspettato ieri fuori dal bar Canova, in piazza del Popolo, ai margini della manifestazione della Fiom e l’ha aggredito: «Pezzo di merda, come ti permetti di dire che quelli di sabato erano barbari? Eroi sono, eroi». È soltanto l’ultimo e in fondo meno preoccupante episodio di intolleranza nei confronti di Nichi Vendola da parte di un mondo di rivoluzionari immaginari che considera il leader di Sel, come dice lui stesso, «ormai il vero nemico, più della destra, che in fondo gli va benissimo così».
Vendola, chi sono, che cosa rappresentano questi incappucciati in nero che s’infiltrano nelle manifestazioni per distruggere le città ? Figli di un tempo paradossale o un nuovo partito armato?
«Non è ancora un partito armato, ma c’è il rischio che lo diventi. Possono reclutare nella crescente disperazione delle nuove generazioni e in più godono dell’aiuto di uno stato incapace. La reazione del governo ha dell’incredibile. Non hanno saputo fare prevenzione e hanno mandato allo sbaraglio le forze dell’ordine. E dopo il disastro, che fanno? Il blocco nero chiede la guerra e lo Stato gliela concede. La proposta di leggi speciali va esattamente in quel senso. Di fatto, costituirebbero un riconoscimento politico, un fiore all’occhiello per il blocco nero. Senza contare che naturalmente non servono a nulla. Serve piuttosto che i servizi imparino almeno a leggere quanto circola sulla rete, dove c’era già tutto da giorni e settimane».
Ma da chi è composto questo aspirante partito armato?
«Il blocco nero coinvolge frammenti di antagonismo e di estrema destra sociale, mescolando vaghi miti ideologici con pratiche da guerriglia metropolitana e di semplice gangsterismo. La palestra ideologica e il luogo concreto di reclutamento sono le curve degli stadi. Quanto al programma politico, diciamo così, è piuttosto rozzo: dagli allo sbirro».
Del terrorismo rosso si disse che c’entrava, in qualche modo, con l’album di famiglia della sinistra e purtroppo era vero. Ma esiste oggi un legame reale fra black bloc e movimenti?
«Stavolta non dobbiamo avere ambiguità . Il blocco nero è l’esatto capovolgimento politico della principale idea da cui sono partiti i movimenti in questi anni, cioè la tutela dei beni comuni. Loro negano proprio il bene comune. La città , la piazza, nel significato di bellezza urbana e di luogo della politica, per il blocco nero non sono beni comuni, terreni da attraversare con amore e rispetto: sono prede. Distruggono la città per distruggere la polis, quindi la bella politica, che i movimenti vogliono invece far rinascere. D’altra parte la frattura in piazza è stata nettissima, fra gli indignati e i barbari, come continuo a chiamarli».
Una frattura politica, ma anche emotiva, fra chi comunque crede ancora in un progetto di cambiamento e chi è in preda a una furia nichilista, disperata.
«Se esiste un elemento che illustra l’egemonia culturale di questi anni è il concetto di “eterno presente” elaborato dal filosofo Pietro Barcellona. Il passato è stato abrogato, dal futuro ci si aspetta soltanto la perpetuazione del presente all’infinito. In questa terra di nessuno della memoria si muovono gli incappucciati»
Come il terrorismo è stato in fondo il miglior alleato del potere, prolungando la vita di un ceto politico finito, così questi sedicenti antagonisti possono dare una mano alla sopravvivenza di questo?
«Ma sono antagonisti a che cosa? Gli incappucciati sono l’altra faccia della violenza del Potere con la maiuscola. Ne condividono il machismo, lo spirito eversivo, perfino il gusto per la mascherata. Erigono barriere, escludono dalla lotta i deboli, hanno in testa una loro zona rossa dove si separa l’estetica della guerra dall’etica della politica»
Al potere italiano i sovversivi sono sempre piaciuti, perché?
«L’humus è lo stesso. Quello che Gramsci chiamava il sovversivismo delle classi dirigenti italiane. Il presidente del consiglio che favoleggia con un personaggio come Lavitola una specie di rivoluzione di piazza, tumulti violenti contro sedi di giornali e palazzi di giustizia, s’inserisce appunto nel filone di questa storia».
L’odio degli incappucciati nei confronti delle forze dell’ordine può essere visto come un pendant dal basso delle campagne di un potere criminaloide contro i magistrati?
«Nel nome del comune disprezzo per la legalità , che è la base del gioco democratico. Ora non voglio citare la famosa poesia di Pasolini sugli scontri di valle Giulia, ma insomma ricordare che i poliziotti sono lavoratori, vengono dalle classi popolari e sono ridotti a furia di tagli in condizioni di lavoro penose. Il crollo di consenso della destra nelle caserme è palpabile e con la frustrazione, il dolore di quel mondo una sinistra che voglia davvero cambiare le cose deve confrontarsi, dare risposte. Ed è quello che avviene già spontaneamente in piazza, anche e anzi soprattutto nella piazza del 15 ottobre. L’applauso dei manifestanti pacifici alle forze dell’ordine che caricavano il blocco nero, la carezza del poliziotto a una manifestante colpita, sono gesti nuovi e importanti».
Senza voler trovare alibi alla sociopatia, non trova che comunque fra i giovani la categoria dei non rappresentati sia pericolosamente cresciuta negli anni, col rischio di alimentare esplosioni di rabbia sociale?
«E si allargherà sempre di più fino a quando la politica e i media non capiranno che la questione del lavoro precario, della vita da precari, è il problema numero uno. Prima del debito pubblico, della crisi, dei precetti del Fondo Monetario o delle banche centrali. La precarizzazione di intere generazioni può portare a una rottura antropologica. Questo fenomeno o trova una rappresentazione mediatica e una rappresentanza politica oppure rischia di fare la fortuna dei blocchi neri, quelli di strada e quelli di palazzo. Del resto, se lo comprendono Draghi e i vescovi, confido che possa farlo anche il centrosinistra italiano».
Non esiste davvero alcun legame fra le imprese del blocco nero e l’alba del terrorismo?
«Troppa storia è passata, con cambiamenti epocali. Un solo pericolo è comune. Il fascino della vecchia idea che i fini possano giustificare i mezzi. Ora, se la storia del Novecento ci ha insegnato qualcosa è che per un mondo più gentile si può ottenere soltanto praticando la gentilezza. Un mezzo barbaro prefigura un esito di barbarie. Lo dico mentre passano queste immagini della rivolta in Libia, che mi preoccupano. Perché ho paura di chi festeggia il vilipendio di un cadavere, perfino se è il cadavere di un dittatore assassino come Gheddafi».
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