Persi duemila miliardi le nove fragilità  italiane

by Sergio Segio | 24 Ottobre 2011 6:50

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BRUXELLES — Duemila miliardi di euro, perduti in tre anni dal 2007 al 2010: l’equivalente dell’intero prodotto interno lordo della Francia, oppure l’11 per cento di tutto il debito pubblico dell’Unione Europea. Anche questo ha significato la crisi, per i ventisette Paesi che ieri si sono ritrovati a Bruxelles con i loro leader. Lo rivela il rapporto che il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, ha presentato loro in mattinata.
Si tratta della «roadmap», l’itinerario in cinque punti per l’uscita dal tunnel, che la Commissione Europea aveva già  preannunciato in sintesi l’altro giorno: ma nella sua versione integrale sta oggi sulle scrivanie dei vari primi ministri come un semaforo lampeggiante che è difficile ignorare. Per esempio, dice che il prodotto interno lordo della Ue viaggia ora intorno agli 11.000-11.500 miliardi di euro: ma se la crescita fosse stata sostenuta, supererebbe i 12.500 miliardi. Il «gap», il divario registrato da quattro anni a oggi, unito ai mancati investimenti e a frenate produttive in tutti i campi, porta a quella perdita di circa duemila miliardi di euro che è un po’ la cartina di tornasole della recessione.
Al declino produttivo, si è accompagnato poi l’aumento del costo di lavoro: fissato a 100 un indice nominale, si scopre che in Germania il costo del lavoro è salito in questi anni a quota 105, ma in Grecia è arrivato a toccare quota 135.
Altro criterio che ha fatto grandi differenze: la capacità , o la possibilità , di avviare rapidamente un’attività  imprenditoriale senza lasciarsi soffocare dai laccioli della burocrazia. Se negli Stati Uniti ci vogliono in media 6 giorni per aprire il proprio negozio o il proprio nuovo ufficio o attività , in Spagna si arriva fino a 45 giorni, e perfino in Germania non si battono certo dei primati: 15 giorni, se va bene. E qui c’è una sorpresa: in Italia, contrariamente a molti sarcasmi, il «business» si può lanciare in una media di 6 giorni, proprio come negli Usa o in Danimarca.
La Commissione europea, che diverse volte all’anno dirama le sue previsioni economiche e le sue raccomandazioni per i vari Paesi, lo fa anche in quest’ultimo rapporto. L’Italia sembra più o meno nella media, ma le raccomandazioni per l’azione che le vengono rivolte riguardano nove diversi campi. Tra di essi il consolidamento dei bilanci, la politica fiscale in generale, la politica dei salari, la politica del mercato del lavoro, gli incentivi per la partecipazione al mercato del lavoro, i provvedimenti per il settore dei servizi. Tanto per tentare un confronto approssimativo, all’Austria e alla Gran Bretagna si chiede di agire in 5 campi, e alla Svezia solo in 3. Insieme con la Romania, siamo poi gli ultimi nella lista dei pagamenti ricevuti attraverso i fondi di coesione della Ue.
La crisi ha significato per l’Europa anche l’ampliarsi della distanza dagli Usa in termini di pil pro capite, produttività , e occupazione. Se nel 2000 il pil pro capite della Ue era il 65% di quello americano, nel 2010 sfiora appena il 67%, cioè non ha fatto registrare alcun progresso. Più grave ancora il discorso che riguarda la produttività  in rapporto a ogni ora lavorata: nel 2000 quella Ue era circa il 75% di quella americana, nel 2010 era addirittura scesa al 72% o giù di lì.

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