by Sergio Segio | 13 Ottobre 2011 6:36
In questi ultimi anni, molti di coloro che operano nell’assistenza pubblica e nelle organizzazioni di carità segnalano la comparsa di una nuova categoria di poveri: hanno un lavoro, ma non un reddito sufficiente a pagare l’affitto. Alloggiano dove possono: in un centro d’accoglienza, presso amici o addirittura nella propria automobile. Alcune amministrazioni comunali hanno coniato per loro la sigla sds, Senza Domicilio Stabile, formula che dovrebbe differenziarli dai Senza Fissa Dimora (sfd) veri e propri. Il fenomeno non è sporadico e tende ad ampliarsi, come sottolinea Véronique Vasseur, primario nel carcere della Santé, in un lavoro intitolato à€ la rue (Flammarion, Paris 2008).
In questo mio libro, che non è né un saggio né un romanzo bensì un’«etnofiction», ho cercato di immaginare l’itinerario percorso da uno di questi nuovi erranti.
Che cos’è un’etnofiction? Una narrazione che evoca una realtà sociale, osservata attraverso la soggettività di un singolo individuo. Non trattandosi né di un’autobiografia né di una confessione, quella figura fittizia deve tuttavia essere creata «di sana pianta», ossia a partire dai mille particolari radicati nella vita quotidiana che si offrono all’osservazione.
Perché ricorrere alla narrazione? Nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, Lévi-Strauss nota, a proposito del concetto di «fatto sociale totale», che per «afferrarlo totalmente» sarebbe necessario poterlo integrare con la visione soggettiva di ciascuno di coloro che vi prendono parte. Qui io procedo all’inverso: descrivo una situazione individuale e una soggettività particolare, lasciando al lettore il compito d’immaginare la totalità sociale che essa esprime, a suo modo, e di cui lo stesso lettore si forma giorno dopo giorno un’idea più o meno precisa a partire dai giornali, dalle notizie e dalle parole che gli capita di scambiare con gli uni o con gli altri. (…)
La verità non è la trascrizione letterale (ammesso che questa sia possibile) degli elementi di realtà . Ne sono convinti i romanzieri, i quali, tuttavia, prima di distanziarsene attingono spesso a un tema, un termine o un concetto propri dell’antropologia. Nel nostro caso, l’antropologo procede in senso inverso: usa la modalità espositiva del romanziere per evocare quell’insieme di carne viva, emozione, incertezza o angoscia che si cela nei temi scelti, nei termini usati, nei concetti che ha cercato di formulare. Per esempio, nel caso, i concetti di luogo e non luogo.
L’ambizione dell’autore di etnofiction non è la stessa del romanziere. Egli non desidera che il lettore si identifichi con il suo «eroe», che gli «presti fede». Auspica, semmai, che scopra in lui qualcosa che riguarda il tempo presente, e in questo senso, ma soltanto in questo, che vi si riconosca e vi si ritrovi. In ogni caso, il personaggio attorno a cui è costruita l’etnofiction è un testimone e, nella più felice delle ipotesi, un simbolo.
È sufficiente aver traslocato una o due volte nella vita per riuscire a immaginare senza troppa fatica gli effetti distruttivi prodotti dalla perdita di punti di riferimento spazio-temporali. Nella situazione dei senzatetto non è in questione soltanto la psicologia, ma proprio il senso della relazione, dell’identità e dell’essere. Candide o il Persiano di Montesquieu erano personaggi di etnofiction, ma guardavano il mondo per stupirsene. Oggi il personaggio di un’etnofiction guarda dentro di sé e scopre la follia del mondo.
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Martedì, 25 marzo
Sono riuscito a sonnecchiare, svegliandomi però verso le cinque. Pochi secondi, giusto per rendermi conto di dove mi trovavo. Forse soffro di una lieve claustrofobia: attraverso il vetro posteriore, il soffitto del parcheggio mi è sembrato molto basso, opprimente. Sono risalito in casa. Non volevo assolutamente correre il rischio di farmi sorprendere dal vicino mentre dormivo in macchina. Mi sono fatto una doccia e ho cominciato a preparare i bagagli. Ci vuole un certo metodo per valutare quello di cui posso aver bisogno. La cosa fondamentale, la preoccupazione numero uno è, a ragion veduta, di non essere scambiato per uno che dorme in strada. Per questo, sistemo accuratamente nella prima valigia i miei due completi classici e verifico che il nastrino dell’Ordine al Merito compaia ben evidente all’occhiello delle due giacche. Sui completi, le tre camicie bianche in buono stato e due cravatte, che non porto mai, ma che d’ora in poi potranno servire. Devo cominciare a fare attenzione ai segni esteriori della rispettabilità e badare a vestirmi da bravo borghese. Accanto, il mio unico paio di scarpe presentabili e alcune paia di calzini. Nella seconda valigia, la biancheria e una piccola borsa da ginnastica con gli oggetti da toilette. Quest’ultima sarà il grosso problema. Porto le due valigie in garage e le sistemo nel cofano. È spazioso, sarà facile spostarle e aprirle. Così il cofano si è trasformato in un piccolo armadio, diciamo un cassettone fine secolo XX. L’interno dell’auto fa le veci del guardaroba: appendo cappotto e impermeabile ai ganci previsti allo scopo. Tutto è pronto, o quasi. Mi sento come un boy-scout che si prepara alla sua prima escursione.
Dispongo di garage e appartamento sino alla fine del mese, dunque ancora per qualche giorno. Disponibilità poco allegra: in garage, il soffitto basso mi angoscia; per di più, vi aleggia un vago odore di benzina subito nauseabondo; domani o dopodomani l’appartamento sarà completamente vuoto. Faccio e rifaccio i conti e scopro di essere quasi ricco: ho tremila euro sul libretto di risparmio, un po’ meno di mille sul conto corrente e un assegno di quattromila in tasca; dovrei recuperare almeno mille euro di cauzione, e a fine mese arrivano i mille e cento che mi rimangono al netto del prelievo automatico a favore della mia ex moglie.
Nel pomeriggio, intendo esplorare minuziosamente i dintorni. Tra poco il mio unico problema sarà di trovare un buon posto dove parcheggiare. Fino a poco tempo fa qualche strada era ancora senza parchimetro e, con un po’ di pazienza, riuscivi a posteggiare gratis; ma l’età dell’oro è finita e persino nei quartieri semicentrali intorno ai Maréchaux, o addirittura tra i Maréchaux e la tangenziale, i dispensatori di multe ispezionano perfino le stradine più minuscole e i più microscopici vicoli ciechi.
(Traduzione di Maria Gregorio)
© à‰ditions du Seuil, 2011
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