Pechino prepara 100 miliardi ma fissa nuove condizioni

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Il presidente francese Nicolas Sarkozy telefona, ieri, a Hu Jintao, numero uno a Pechino, sperando che al prossimo vertice del G20 questi si impegni nel fondo di aiuti ai Paesi europei in crisi. Ma il rovesciamento di duecento anni di storia — le potenze europee che tornano a inchinarsi all’imperatore celeste — manda brividi di nervosismo: dopo una lunga marcia passata dalle campagne — l’Africa, il Sudamerica, l’Est un tempo sovietico — gli ex maoisti si avvicinano ora alla città , al pezzo pregiato sulla scacchiera.
Il presidente Hu non ha preso impegni con Sarkozy, anche se il Financial Times parla di un possibile contributo pari a 100 miliardi di dollari: spera che la soluzione trovata ieri mattina dal vertice dell’Eurozona «promuova la ripresa economica e lo sviluppo». Per ora, niente di più. Pechino siede su 3.200 miliardi di dollari di riserve accumulate con surplus commerciali di anni, ma non ha intenzione di prendere rischi, prima vorrà  vedere i dettagli del piano di salvataggio dei leader europei. Poi deciderà , ma non è il caso di trattenere il fiato: difficilmente farà  molto se avrà  dubbi finanziari o politici. L’Europa, comunque, ci prova. Oggi Klaus Regling, il capo del Fondo salva Stati Efsf, sarà  a Pechino, prima tappa di un road show mondiale tra gli investitori potenziali, per spiegare le decisioni prese ieri a Bruxelles. E a Parigi, in un momento di comicità , il ministro della Difesa francese Gerard Longuet si è lasciato andare: «I cinesi comprano dollari, ora vogliono comprare euro — ha detto — Questo significa che hanno più fiducia nel futuro dell’Europa e della sua valuta che nel futuro degli Stati Uniti». Gli entusiasmi si fermano però qui.
Più seriamente, il commissario europeo all’Economia, Olli Rehn, ha messo la questione in termini rovesciati. Ha detto che un contributo di Paesi emergenti «avrebbe conseguenze politiche molto ampie» e «significherebbe che i cinesi, i russi e i brasiliani avrebbero indirettamente un posto al tavolo dell’Eurozona». Una decisione strategica «da non sottovalutare». Anche da Berlino sono arrivati inviti a non strafare: i cinesi non fanno niente per niente e sono spesso arroganti. Qualche giorno fa, per dire, il presidente del fondo sovrano cinese, Jin Liqun, ha avuto parole chiare: «L’Eurozona è una di alcune entità  politiche ed economiche che si aspettano la carità  dalla Cina e dai mercati emergenti. Noi vi rispettiamo, per favore rispettate voi stessi». Di fronte alla crisi del debito, in effetti, l’autostima degli europei sta piuttosto vacillando.
Più in concreto, se l’aiuto cinese arriverà  sarà  condizionato a concessioni, alla possibilità  di fare acquisizioni industriali e bancarie in Europa e a non essere disturbati. Ancora il mese scorso, il premier Wen Jiabao ha ribadito che la Cina si aspetta che l’Europa le riconosca lo status di economia di mercato. È qualcosa che i cinesi avranno automaticamente nel 2016, ma vorrebbero prima. Non per prestigio, ma perché non essere considerati economia di mercato comporta una penalizzazione quando si devono stabilire i prezzi equi nei casi di dispute antidumping. In qualche modo, Pechino vuole che i membri della Ue la smettano di sollevare questioni di concorrenza sleale (e magari di copyright).
Il fatto è che, davanti agli europei con il cappello in mano, il nuovo status la Cina lo ha già  conquistato: è semplicemente al vertice della gerarchia finanziaria del mondo. Paura?


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