Oliver Sacks. “Io, da dottore a paziente così racconto la mia malattia”

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New York.  «Ormai vivo in un mondo piatto. E so benissimo che non sarà  più come prima. Mi adatto: ci provo. Ma a volte faccio errori bizzarri. Tendo la mano e manco la presa. Oppure cerco qualcosa e sbaglio bersaglio: così». Il dottor Oliver Sacks allunga la mano verso il registratore e il traffico del West Village copre l’accento inguaribilmente inglese dopo cinquant’anni d’America. Sulla parete un vecchio poster illustra le sezioni del cervello. Il divanetto è invaso da coperte e cuscini. Dal soffitto pende un ventilatore. Il condizionatore incastonato nella finestra fa un casino del diavolo: «Non posso prendere caldo».
Il neurologo più famoso del mondo vive da single nel cuore della New York che era degli artisti: pesa? «A volte mi piace così, a volte mi sento un po’ solo. Diciamo che dopo 70 anni ci si abitua». Porta un gilet di lanetta sulla camicia oxford rosa, i pantaloni kaki di Banana Republic e le sneakers ai piedi. Si sistema il cuscino sotto la sedia. Alla fine dell’intervista confesserà  che “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” – titolo del libro che lo impose anche in Italia – in fondo è anche un po’ lui che per anni ha sofferto di uno strano disturbo… Ma per adesso sposta ancora una volta più in là  il registratore.
Le dà  fastidio?
«Ma no. Però sono felice che prenda anche appunti. L’ultima volta è arrivato un tizio che aveva dimenticato di accenderlo. Alla fine mi ha guardato implorante: me la dà  un’altra oretta?».
Nell’Occhio della mente ci apre un diario da incubo: la scoperta di una malattia che a 78 anni le ha fatto quasi perdere la vista dall’occhio destro. Lei ha reagito appunto con l'”occhio della mente”: quello che integra la visione perduta con le esperienze elaborate dal cervello. Scrive: «Il tempo dirà  se riuscirò ad adattarmi a questa sfida». Come va?
«Ho appena passato un weekend in campagna: lunghe passeggiate. Ma lì è più facile. Vivo in un mondo a due dimensioni e in città  è tutto più complicato. I bordi dei marciapiedi che non riesci a intravedere. E poi questo traffico. Mi adatto: anche se non così bene come pretendo dai miei pazienti. Vivo circondato da lenti di ingrandimento. Leggo libri che hanno i caratteri più grandi. Potrebbe andare meglio se mi operassi di cataratta: ma se andasse storto mi ritroverei completamente cieco».
Da dottore a paziente: che cosa è cambiato?
«Ascolto con più attenzione. Ho sempre cercato di immaginare quello che provava l’altro: cercando di mettermi dalla sua parte. Paradossalmente adesso cerco di fare più attenzione a quello che dico io. Quello che dici è importante: e come lo dici. Ripenso al momento in cui il mio medico mi accennò alla possibilità  di un tumore all’occhio. Non finii neppure di ascoltarlo e nella mia testa risuonavano solo due parole: cancro, cancro. Non dico che ci sono volte in cui il medico non debba dire la verità . Ma la delicatezza prima di tutto».
Che non è però di tutti.
«Il medico che m’ha curato – David Abramson, il libro è dedicato a lui – è stato eccezionale. Ma vede il mio polso? Beh, un dolore terribile: capita soprattutto agli scrittori. Chiamo e arriva quest’altro dottore. Non dice neppure “Salve”. Non fa una domanda. Prende il polso. Solleva il braccio. Fa quello che deve fare con la sua macchinetta e stop. Gli dico ironico: “Oh, piacere di conoscerla!”. Per carità : mi ha guarito. Ma non puoi demandare tutto alla macchinetta e via. La tecnologia è importante. Ma diceva Martin Buber: il problema non è la tecnologia, il problema è come umanizzarla».
Non è un tecnomane.
«Ecco: questa è la mia stilografica. E questa è la mia macchina per scrivere. Sono i miei attrezzi tecnologici. Però lo so: sono fortunato. Poi è la mia assistente Karen a riversare tutto su computer».
L’esperienza della malattia ha cambiato anche lo scrittore? E adesso si sente più medico o scrittore?
«Direi più medico. Meglio: il medico non è mai stato sacrificato allo scrittore. Mentre lo scrittore sì. Prendete la storia che apre il libro: la pianista che non sapeva più leggere la musica. Un caso bellissimo: ma ho dovuto aspettare tre anni prima di poterne scrivere. C’è una linea da rispettare tra la professione medica e la scrittura».
La prima volta che ha messo piede nell’ospedale che ispirerà  Risvegli – dove ha incominciato a trattare i malati di encefalite letargica – erano gli anni Sessanta e quella clinica, la “Beth Abraham”, si chiamava ancora “Casa degli incurabili”. La dizione è stata abbandonata da un pezzo. Ma che senso hanno oggi le parole “curabile” e “incurabile”?
«Qual è il medico che la gente stima di più? Il chirurgo. Perché è quello che tecnicamente dà  più soddisfazione. Il chirurgo opera: cioè taglia e rimette a posto. Ripara. La domanda è: cosa fare quando il mio problema non è “operabile”?».
Che cosa fare?
«La medicina è l’arte del possibile. Il mio mondo è diventato visivamente piatto: e io mi ci adatto. Ora mi accompagno con un bastone. Prima utilizzavo un passeggino. Ecco: la medicina è l’arte di adattarsi. Certo se fossi più giovane riuscirei ad adattarmi meglio».
Giovane e magari molto ricco: avere i mezzi aiuta. Malgrado la riforma sanitaria di Barack Obama.
«Che problema qui in America: se non paghi ti sbattono fuori dall’ospedale. Ma, se la cura è soprattutto “adattamento”, allora proprio la riabilitazione dovrebbe essere la parte più importante. Io sono stato fortunato perché la mia assicurazione pagava bene: in ospedale c’era un tizio che il giorno dopo l’operazione al femore era già  per strada».
Fa bene a indignarsi. Eppure lei non ha fama da intellettuale “impegnato”.
«Mi piace quell’espressione che usano gli antropologi: osservatore permanente».
Prendiamo adesso: con i ragazzi di tutto il mondo che sognano di occupare Wall Street.
«Mai partecipato a una marcia. Cioè: una volta sola. Washington. Anche lì osservatore: quanto tempo sarà  passato? Ero andato a raccontare la “rivoluzione dei non udenti”: questo grande raduno di piazza per i loro diritti. Ma non fa per me: anche se riconosco che poi qualcuno lo debba fare».
A proposito di sguardo antropologico. Lei ha descritto lo “stato vegetativo cronico” come una condizione da zombie. Dai romanzi al cinema passando per la tv gli zombie sono tornati di moda: malgrado le proteste e i movimenti sarà  una metafora della società ?
«Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento epocale. Torniamo alla tecnologia. Fino a poco tempo fa un tizio sorpreso a parlare da solo per strada sarebbe stato considerato uno schizofrenico: oggi sta conversando al telefonino. Non dico che non sia strepitoso questo restare continuamente in contatto: ma consideriamo anche il prezzo di questa interconnessione. Sembra un paradosso: più aumenta la comunicazione e più si pensa meno».
C’è un vecchio gioco che nella A di America riassume il suo carattere: Adultery, Alcol, Addiction e Advertisement – cioè adulterio, alcol, dipendenza e pubblicità .
«Diceva lo psicologo William James: la miglior cura per la dipendenza è la religione. E la parabola di George W. Bush lo dimostra bene».
Ma l’America sa anche cambiare. Oggi la New York Public Library ha speso un milione di dollari per l’archivio di Timothy Leary, lo scienziato che finì in galera per gli studi sull’Lsd. Anche lei ha confessato di avere sperimentato con le droghe nei Sessanta.
«Purtroppo Leary fece tutta questa pubblicità  col suo messaggio seducente e dannoso. Le anfetamine sono il peggio: fisicamente e psicologicamente. Ma lui si trasformò in una specie di profeta. Com’era il suo slogan? Tune in, drop out, lasciatevi andare. Non lo ricordo più. Ma un conto è lasciarsi andare per un weekend: troppa gente s’è lasciata andare per sempre».
Ma il suo rapporto con quegli esperimenti?
«Sto ultimando un libro proprio sulle allucinazioni e lì c’è tutto un capitolo dedicato alle droghe. Dico solo questo: ci abbiamo messo milioni di anni per arrivare a essere quello che siamo – e non esiste scorciatoia artificiale che prima o poi non faccia danni».
Non smette mai di cercare spiegazioni. Anche su di sé: è vero che fa psicoanalisi da 40 anni?
«Anche stamani. Come ogni lunedì e mercoledì: alle 6 del mattino. Psicoanalisi e neurologia? Genericamente parlando il mestiere dello psicoanalista è ascoltare: e anche il mio. Del resto Sigmund Freud era neurologo prima di diventare psichiatra. E poi la psicoanalisi serve a liberarci dalle paure profonde: a permetterci di essere più liberi a livello conscio. Per tornare al discorso di prima: a farci diventare meno zombie».
Nel libro rivela anche di soffrire di una malattia dal nome difficile: la prosopagnosi.
«Basta dire: la difficoltà  a riconoscere i volti».
Il racconto è straordinario: come quando rivela che durante i ricevimenti la sua assistente faceva indossare agli ospiti delle targhette col nome. Domanda: ma se riconoscere un viso può essere così difficile – cioè se il riconoscimento sta soltanto nel nostro cervello – allora anche bellezza o bruttezza, per esempio, sono attributi relativi? Anche qui a scattare è l'”occhio della mente”?
«Non sempre. L’affermazione è sicuramente vera per le persone che noi amiamo: e che magari solo noi “vediamo” belle. Ma non può valere per un divo del cinema. La bellezza estetica esiste: comunque la vogliamo chiamare. Marilyn Monroe non poteva certo definirsi una bellezza intellettuale o morale: ma qualcosa aveva! E del resto: provate a scendere a passeggio per strada. Sono sicuro che vedrete un sacco di gente bella anche se non sarete in grado di “riconoscere” nessuno. Anzi: in questo siamo tutti prosopagnosici».


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