by Sergio Segio | 31 Ottobre 2011 7:41
NEW YORK — Punire il Congresso, rissoso e inconcludente, con uno sciopero dei contributi delle imprese alla politica. E promuovere in migliaia dei suoi Starbucks Café, tra un «frappuccino» e un espresso doppio, il finanziamento di nuove attività delle piccole imprese. Facendo un po’ di quella «job creation» che in America un governo con le mani legate non riesce a materializzare.
Pensa in grande Howard Schultz: dopo aver creato, ispirandosi al modello italiano, una catena di bar con 11 mila punti vendita, il «barista del mondo» adesso si propone come il catalizzatore di un movimento che dovrebbe portare le imprese a diventare soggetti attivi della politica economica riempiendo il vuoto lasciato dalle zuffe tra repubblicani e democratici. E non sono solo parole: da domani Schultz cerca di trasformare i suoi 6800 negozi negli Usa in agenzie per il finanziamento di nuove microimprese. Un progetto ambizioso che l’imprenditore di Seattle ha illustrato sul sito della Harvard Business Review suscitando reazioni positive («finalmente qualcuno che prova a reinventare il capitalismo»), qualche commento scettico («è un modo di riproporre la filosofia della responsabilità sociale d’impresa») e anche drastiche bocciature: a Schultz, convinto che le società che si limitano a perseguire la massimizzazione del profitto prima o poi scopriranno che la loro scelta è insostenibile, il Wall Street Journal replica che Mr Starbucks fa rivoltare Milton Friedman nella tomba. Taglia corto il «venture capitalist» William Frezza, animatore del Competitive Enterprise Institute: «Dal punto di vista della difesa del capitalismo, se parti dalla premessa che il mondo del business ha doveri di solidarietà verso la società , hai già perso».
Ma Schultz va per la sua strada, anche a costo di rischiare di essere visto come un imprenditore che si sta trasformando in politico. «Americans Elect», un movimento nazionale che cerca di far emergere un candidato indipendente da opporre alle presidenziali ad Obama e al suo sfidante repubblicano, l’ha inserito, insieme al sindaco-imprenditore Michael Bloomberg e a pochi altri, nella rosa delle personalità su cui puntare. Lui smentisce di voler «scendere in campo» e intanto sviluppa il suo progetto.
La prima sassata contro le finestre della politica è partita a metà agosto quando l’imprenditore di Seattle, nauseato dallo spettacolo di un Parlamento che non riusciva a trovare un accordo nemmeno su un atto dovuto come l’innalzamento del tetto della spesa, annunciò che il suo gruppo avrebbe smesso di versare contributi elettorali ai due partiti. Niente più finanziamenti fino a quando non verranno trovate intese bipartisan e invito agli altri imprenditori a fare lo stesso. Pochi l’hanno seguito, ma Schultz non si è demoralizzato e ha lanciato la «fase due» del suo progetto: da domani i 15 milioni di americani che frequentano i suoi negozi verranno invitati a partecipare con una piccola donazione al programma «CreateJobsforUSA».
Soldi che, insieme ai fondi filantropici versati dalla stessa Starbucks e da altre aziende disposte a partecipare al programma, verranno utilizzati da alcune no profit locali — la rete delle Community Development Financial Institutions — per finanziare nuove iniziative di piccoli imprenditori.
Le idee ci sono, ragiona Schultz. Quello che manca sono il credito e la fiducia. Proviamo a fare uno sforzo per colmare questo gap. I problemi occupazionali dell’America non si risolveranno certo con la filantropia e le micro donazioni: Starbucks lancia l’iniziativa con un suo contributo di 5 milioni di dollari e cerca di invogliare i donatori regalando, a chi verserà più di 5 dollari, un braccialetto di plastica coi colori della bandiera americana sulla quale è scritta la parola «indivisibile». Schultz annuncia anche l’apertura di nuovi esercizi e promette di fare migliaia di assunzioni, invitando le altre catene retail a fare altrettanto, ma la sua mossa arriva dopo che ha eliminato 600 negozi poco produttivi, licenziandone il personale. E tuttavia l’imprenditore è convinto che sia questa la via da battere, anche a costo di «inquinare» la logica classica del profitto e del mercato: «Io — spiega Schultz — qui sto ragionando come uomo d’impresa, non come filantropo: migliorare il tessuto sociale nel quale sono immersi i miei negozi, evitare che il loro bacino sprofondi nella depressione è un mio interesse imprenditoriale».
E sulla Harvard Business Review azzarda: «Vogliamo reinventare il capitalismo? Solo nella misura in cui riusciamo a ridefinire il rapporto con le nostre comunità . Negli ultimi vent’anni i rapporti d’impresa sono molto cambiati: nella gestione interna si è passati da un modello paternalistico a uno più collaborativo. Poi sono cambiati i rapporti di forza tra produttori e consumatori con le imprese che hanno innovato nel modo di rivolgersi ai loro clienti. Ora arriva la terza sfida: ripensare i rapporti con le comunità che serviamo».
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