by Sergio Segio | 30 Ottobre 2011 6:46
Nella mitologia, nella favolistica, nell’araldica come del resto nell’odierna fantasy, nei cartoni animati e nei videgame draghi e castelli sono fatti per intendersi. Al di là di qualsiasi controversia sull’energia simbolica dei serpentoni, che in Occidente fanno paura mentre in Cina sono creature generose e ben auguranti, è un fatto che il prossimo presidente della Bce, Mario Draghi, ha scelto di andare ad abitare non nella casa del suo predecessore, bensì in una zona nota per un bel parco, al cui interno si erge un piccolo castello del Settecento appartenuto a una delle più antiche dinastie di Francoforte. Si chiama Holzhausen Schloesschen. Atmosfera faustiana, tanto per rimanere nel solco di due illustri governatori amanti della cultura tedesca come Carli e Ciampi. L’altra settimana del resto all’Alte Oper della città sul Meno, dinanzi alla signora Merkel, Draghi ha voluto qualificare l’Italia con le parole di Goethe pronunciate coraggiosamente in tedesco: «Das Land wo die Zitronen bluehen», la terra dove fioriscono i limoni.
Nel riempire in questi giorni i pochi scatoloni per il trasloco da palazzo Koch, il banchiere dei banchieri si sarà compiaciuto di aver tolto di mezzo dalla sua stanza il famoso dipinto di San Sebastiano che per tanti governatori rappresentava l’esibita metafora della loro infelice condizione; per cui, di fronte a pressioni e lagnanze, sospiravano indicando il santo trafitto dietro le spalle a giustificare un necessitato diniego. La tela è in restauro da quasi sei anni. E Draghi, detto anche Supermario (ma non gli piace), è tutto fuorché un San Sebastiano.
È piuttosto un personaggio da missioni impossibili. Basti pensare che in via Nazionale è arrivato sull’onda dello scandalo Fazio, quando tra avventurose consegne di Tapiri e intercettazioni in cui il governatore riceveva «baci in fronte» da discussi banchieri, il prestigio dell’istituto di emissione era praticamente a zero. Anzi, sotto zero. Ha anche fatto restaurare il monumentale fregio del Dazzi, dal titolo: «Ricchezza e benessere nazionale trionfante».
Il trionfo magari sembra eccessivo. Draghi comunque ci tiene a essere un uomo positivo e con un segno + accanto a tutto, o quasi: i suoi studi prima dai gesuiti del Massimo (con Montezemolo, i fratelli Abete, Gianni De Gennaro e Giancarlo Magalli), poi la laurea in economia, con Caffè, quindi in America adottato da Modigliani, paiono a dir poco prestigiosi. La carriera è un modello di successo, una serie ininterrotta di semafori verdi. La famiglia (moglie anglista conosciuta a diciannove anni che lo ha sempre seguito ovunque con rassegnata allegria, due figli di cui si conoscono a malapena i nomi, da poco una nipotina) si configura come un puntello più che rassicurante della sua esistenza. Perfino nello sport (in gioventù basket e arrampicate in montagna, ora tennis e golf) si è parlato come di una specie di primo della classe. Cura l’aspetto fisico, non disdegna le diete, anche con pranzi a base di barrette e come abbigliamento è il classico “uomo in blu”. L’unica trasgressione, se così si può dire, sarebbe una certa debolezza per i giochi dei telefonini, specie in aereo.
E ancora: secondo la recentissima biografia di Stefania Tamburello (Mario Draghi, il governatore, Rizzoli) viaggia con bagagli ridotti al minimo, ha il dono della sintesi e della velocità argomentativa al punto che, in un’audizione, un deputato lo interruppe: «Piano, lei prende l’ascensore mentre dobbiamo salire le scale». Di sicuro detesta sprecare il tempo. Non di rado capita di vederlo mangiare da solo per evitare questuanti e attaccabottoni. Con inevitabile forzatura si può pensare che sia una macchina programmata per conseguire il risultato prefisso. Se proprio bisogna scavare con temeraria introspezione nel fondo dell’animo suo, è possibile che come tutti i tipi assai flemmatici abbia il timore di risultare freddo e distante e dunque di non arrivare al cuore della gente.
Ma i banchieri centrali non hanno da rendere conto a un pubblico. Solo nella cerimonia del passaggio delle consegne della Bce ha tradito qualche emozione accettando la campana, simbolo del comando che Trichet gli ha messo in mano. Ma si è guardato bene dal suonarla. Qualche giorno prima, uscendo di buon mattino da un hotel di Parigi, gli hanno chiesto come valutava il fatto che gli indignados italiani avessero scelto proprio il suo cognome per dar vita al movimento dei Draghi ribelli, accampati su via Nazionale con un enorme dragone gonfiabile di fattezze più disneyane che orrorifiche. Lui, più incuriosito che altro, ha accennato a un sorriso: «Un nomignolo carino». Ma poi, ha avuto il coraggio, o l’impudenza, l’astuzia o l’onestà di aggiungere che quei giovani avevano ragione.
Nella nuova casa vicino allo Schloesschen porta ricordi di un anno piuttosto complicato: la fatica di arrivare a quel traguardo, almeno all’inizio senza nessun appoggio, praticamente da solo. Poi almeno un biennio di doppio lavoro, a far marciare Bankitalia e, insieme, a riscrivere il nuovo ordine finanziario globale, avvelenato dai titoli tossici e dai megabonus di manager avidi, come presidente del Financial Stability Board. Quindi, il filo diretto con Napolitano. L’ostilità di Tremonti. Le frecciate di Bossi («Quello – diceva – sta sempre a Roma»). L’ambiguità di Berlusconi di cui Draghi è riuscito a non dire mai nulla di sgradevole anche quando, nel 2009, il Cavaliere definì la Relazione del governatore «molto berlusconiana». E poi, la crisi che s’incanagliva, i salti mortali per convincere i governanti al rigore, fino alla lettera-diktat scritta con Trichet e alla battaglia per l’autonomia di Via Nazionale innescata dalla successione.
Seduto nello studio a vetrate del presidente della Bce, al 35esimo piano dell’Eurotower dove si insedierà ufficialmente dal primo novembre, è plausibile che si porti dietro anche un filo di inevitabile stress. Per trovare qualcuno sulle cui spalle gravano il peso e le aspettative di un Paese pericolosamente in bilico, bisogna tornare a Ciampi, e l’esempio suona, più che lusinghiero, di buon auspicio. Nel 1993 la lira era stata piegata dalla speculazione e l’Italia si era trovata sull’orlo del baratro. Allora Draghi, dopo cinque anni a Washington come giovanissimo responsabile per l’Italia della World Bank, era direttore generale del Tesoro, nominato per primo da Andreotti e poi riconfermato da tutti. Da quella poltrona riuscirà a liquidare l’Iri e a condurre in porto la privatizzazione di Eni, Enel, Comit e Credit. Una «rivoluzione culturale», disse lui mentre i suoi nemici lo rimproverano di aver svenduto il patrimonio nazionale durante una misteriosa crociera sul Britannia, l’ex yacht della famiglia reale inglese, assurto a emblema di trame ordite dalle forze della de-sovranizzazione: “british invisibles”, così si chiamava il gruppo d’affari che l’ha organizzata.
Più tardi, sempre dal Tesoro, tesse la difficile tela che porta l’Italia nella serie A dell’euro. La successiva esperienza come vicepresidente della Goldman Sachs, lo identifica come uno strumento del mondo anglosassone. Oggi, le stesse fonti lo presentano come «più tedesco dei tedeschi» e la Bild lo raffigura con in testa l’elmetto chiodato dell’esercito del Kaiser.
In realtà – e non ci sarebbe bisogno di dirlo – è italiano anche se, come ha scritto Eugenio Scalfari, Merkel e Sarkozy l’hanno promosso «nonostante sia italiano». Certo, Draghi è un personaggio che si valuta meglio per contrasto, per negazione, alla rovescia. In un mondo inutilmente chiassoso interpreta le virtù della discrezione e in una vana fantasmagoria di colori il suo grigio risalta. Ma soprattutto, rispetto a tanti improvvisatori, incarna la razionalità dei numeri, le scelte ponderate, le analisi macroeconomiche puntuali. Non per nulla il presidente Napolitano lo ha messo alle costole dei governanti, ai limiti del commissariamento e anche oltre. Ma ora Draghi, già da domani sera, sarà nel Castello di Francoforte, italiano ma prima ancora europeo. È la sorte inesorabile dei tecnocrati: avere un grande potere senza essere mai stato eletto. Ma i miti e le favole sui draghi, a pensarci bene, vengono molto prima delle elezioni e della democrazia.
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