Ministri e manager di Stato così il grande lobbista inquinava le istituzioni
NAPOLI – Comincia tutto con la denuncia di un imprenditore del settore ferroviario che punta l’indice su uno dei soci: il lobbista e uomo d’affari Luigi Bisignani. Così, nel giro di pochi mesi, si sviluppa l’indagine che illumina uno dei crocevia del potere in Italia: il formidabile sistema di relazioni intrecciato da Bisignani. Per le cronache, il caso P4.
Il processo che inizia domani riguarda solo alcuni episodi. Ma lo scenario è più ampio e ruota attorno a un’ipotesi rimasta fuori dal rito immediato: l’accusa di associazione per delinquere contestata a Papa, Bisignani e al sottufficiale dei carabinieri Enrico La Monica, latitante in Senegal. Reato escluso dal gip ma ritenuto sussistente dal Tribunale del Riesame con un’ordinanza che, il 7 novembre, passerà al vaglio della Cassazione. Se il ricorso della difesa dovesse essere respinto, Bisignani finirebbe in carcere. In questo contesto, gli inquirenti delineano il ruolo del lobbista che è in eccellenti rapporti con mezzo governo. Rileva la Procura: «Non si capisce a che titolo condizioni le strategie parlamentari». Non a caso, un capitolo della richiesta di custodia dei pm Francesco Curcio e Henry John Woodcock si intitola: «Risultanze investigative relative al potere relazione e di influenza del sodalizio, i rapporti con Gianni Letta e la presidenza del Consiglio, quelli con l’Eni, con altri esponenti del governo, con i vertici dei Servizi, e con Rai e Dagospia».
Letta viene indicato come il «punto di riferimento» di Bisignani che gli avrebbe «trasferito» notizie giudiziarie; ma il sottosegretario ha sempre categoricamente smentito questa ricostruzione. «Con lui intrattengo rapporti di amicizia che gestisco in modo istituzionale e corretto come con ogni altro – ha detto Letta sentito come teste dai pm – Bisignani è amico di tutti, è l’uomo più conosciuto che io conosca, è uomo di relazioni».
Le intercettazioni disvelano la «notevole influenza» del lobbista sul ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, il rapporto strettissimo con il presidente dell’Eni Paolo Scaroni, i dialoghi con l’allora dg della Rai, Mauro Masi, con il presidente della Ferrari Luca di Montezemolo, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, con la parlamentare Michaela Biancofiore, e con tanti altri protagonisti della vita politica ed economica del Paese (tutti non indagati). Gli inquirenti, che con una mail piazzano una microspia nel computer del suo studio di piazza Mignanelli, scoprono che sul pc di Bisignani è installato un software-spia. Ovvero, un sistema capace di inviare dati a caselle di posta riservatissime il cui contenuto è stato richiesto dalla Procura a Google con una rogatoria verso gli Usa. Di Alfonso Papa, magistrato con l’ambizione di entrare in politica, Bisignani si serve, secondo l’accusa, per ottenere notizie riservate che il deputato si procurava avvalendosi del maresciallo La Monica.
L’ex pm entrato in Parlamento e il lobbista parlavano fra loro con schede fittiziamente intestate a terze persone. Strumento che il Tribunale del Riesame definisce «essenziale per le attività illecite svolte dagli indagati: come le armi con matricola abrasa per i rapinatori». Interrogato per cinque volte prima di essere arrestato e poi dal gip Luigi Giordano, Bisignani respinge o ridimensiona le accuse. Nega tutto Papa. In carcere, il deputato Pdl riceve la visita del collega Luigi Vitali. Che accusa la Procura di «un vero e proprio trattamento ai limiti della tortura».
Domani, in aula, in piedi accanto alla gabbia, se suo marito Alfonso Papa resterà dietro le sbarre, ci sarà anche Tiziana Rodà . Non solo moglie ed avvocato, ma anche indagata nella stessa inchiesta. «Il presidente Berlusconi – dice – mi ha fatto chiamare spesso dalla sua segreteria per capire se avessimo bisogno di qualcosa. Poi, spesso andando a Roma per lavoro, ho incontrato esponenti anche del Pd e dell’Udc che si dicevano dispiaciuti per Alfonso. Nomi? Non ne faccio. Però mi chiedo: ma insomma chi ha votato per l’arresto di mio marito?».
La Rodà , per i pm, grazie alle relazioni intrecciate dal marito, avrebbe tra l’altro ottenuto incarichi da aziende come Enel, Autostrade, Poste Italiane, moltiplicando per venti volte, in dieci anni, i suoi guadagni di legale. «Tutte sciocchezze. Posso dimostrare che si tratta di semplici rapporti di lavoro. Sono serena, per me e per Alfonso tutto ai risolverà in una bolla di sapone. Ora mi importa di una sola cosa: lui sta male. Vedrete tutti quanto è deperito e depresso».
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