Metà  zar, metà  rockstar in declino La Nuova Russia delusa da Putin

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MOSCA — C’è la teoria della missione di «paladino della Russia imperiale», di cui si considera investito dal destino. E quella del leader costretto a proteggere il castello di interessi privati e inconfessabili, che è la roccaforte del suo potere. C’è la «sindrome di Mubarak» e lo shock psicologico ricevuto dalla primavera araba, con gli autocrati cacciati dalla piazza, traditi e processati dai loro ex sodali. E poi c’è la teoria della rockstar, che ha fatto il suo tempo, ma non sa lasciare il palcoscenico e riprende il suo tour, riproponendo sempre lo stesso repertorio a un pubblico, un Paese in questo caso, andato già  molto più avanti nei gusti e nelle aspettative.

E ognuna di queste spiegazioni racconta un pezzetto di verità  sulle ragioni che hanno spinto Vladimir Putin a rifarsi zar, annunciando che dopo un quadriennio sabatico speso a far finta di essere solo il premier, si ricandiderà  (come dire che sarà  eletto) alla carica di presidente della Federazione Russa nella prossima primavera. Con la probabile prospettiva di rimanervi per altri due lustri e un biennio, fino al 2024 quando avrà  71 anni, come gli consente una Costituzione confezionatagli su misura. Dissolta nel vento, come spesso accade alla cremlinologia passata e presente, è ogni illusoria previsione che Dmitrij Medvedev, il falso Dmitrij viene da dire pensando alla storia russa e all’epoca dei torbidi, l’uomo che Putin dopo due mandati mise sul suo trono nel 2008, avesse acquistato luce propria e fosse in grado di convincere l’antico maestro a farsi definitivamente da parte. È bastata una licitazione privata tra i due, un’intesa fuori da ogni procedura democratica, i cui termini Putin avrebbe dettato in una clausura estiva a Soci, per annunciare ad amici e nemici che la ricreazione al Cremlino è finita: il «nacialnik», il capo è di ritorno, l’allievo retrocederà  nuovamente alla casella di primo ministro.

È stata l’epitome della politica concepita come circolo chiuso e cospirativo, l’incipit di una nuova fase dell’autoritarismo che ha segnato una vicenda millenaria. Al punto che Chrystia Freeland, una delle migliori analiste del mistero russo, azzarda che dopo lo zarismo legittimato dal sangue e dalla fede, dopo il comunismo sorretto dal partito e dall’ideologia, il potere sulla Moscova sembra avviato verso quello che i politologi chiamano «sultanismo» o regime neopatrimoniale, dove la fonte di legittimazione di Vladimir Putin è Putin stesso, un uomo solo al comando.

Eppure, tolta la scontata mezz’ora di applausi degli 11 mila delegati al Congresso di Russia Unita, il partito presidenziale già  in armi per riprendersi la maggioranza assoluta alla Duma nelle elezioni di dicembre, le nuove vesti di sultano sono apparse subito in aperta e clamorosa dissonanza con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Un ministro è stato costretto a dimettersi per essersi apertamente ribellato al patto. I collaboratori di Medvedev, quelli che ne hanno accreditato l’immagine modernizzatrice e filoccidentale, sparano sull’intesa dicendosi delusi. L’intellighentsija esprime il suo distacco dal paternalismo di Putin. Oligarchi illuminati, come Alexandr Lebedev e Mikhail Prokhorov, parlano di movimenti tettonici all’interno delle élite di governo.

Il piano di Putin non è affatto in pericolo. La sua popolarità , sebbene in discesa, non ha ancora rivali in grado di scalfirla. La sua verticale del potere, che gli assicura il pieno controllo del Parlamento, dei media televisivi, dei partiti, del sistema elettorale, dei giudici e delle amministrazioni locali lo corazza contro ogni rischio a breve termine. I silovikì, gli uomini degli apparati d’ordine e sicurezza, sono con lui. Il petrolio intorno agli 80 euro al barile gli assicura risorse sufficienti per garantirsi pace sociale e amici riconoscenti.

Tornerà  a essere il signore del Cremlino. Ma la domanda che inquieta un Paese che lui stesso ha ricostruito e cambiato, è in quale incarnazione. Quale «matrioska» sceglierà  di essere Putin per il suo ultimo atto?

«Dal 1999 al 2004 — spiega il miliardario Lebedev, ricevendomi nel suo ufficio foderato di mogano e pieno di quadri dell’Ottocento russo — Putin è stato a suo modo un riformatore, ha rimesso insieme il Paese, gli ha ridato orgoglio, ha fatto ripartire l’economia. Dopo il 2004 ne abbiamo visto la versione più autoritaria e dirigista. Ora deve scegliere. Io credo, spero che sia pronto a cambiare. Basterebbero alcune cose, semplici ma rivoluzionarie». E cita la riforma giudiziaria, il via libera a veri partiti politici, la creazione di una Bbc russa, una nuova privatizzazione: «Perché per esempio non privatizziamo il 20% delle azioni possedute dallo Stato nelle imprese? Parliamo di 100 miliardi di dollari, potremmo restituirli alle persone, per compensarle della truffa del 1992. Questa volta funzionerebbe, c’è il mercato, la gente è informata: se lo facesse sarebbe un eroe nazionale. Se no, gli resterebbe solo la direzione di Lukashenko in Bielorussia».

Lo scenario di uno zar costretto suo malgrado a farsi riformatore, torna in molte conversazioni. Me ne parla Igor Yurgens, uno dei consiglieri economici di Medvedev: «La crisi economica ha bisogno di risposte nuove, non basta più la centralizzazione e le élite chiedono più libertà  ad ogni livello». E usa gli stessi toni perfino Anton Nosik, uno dei blogger politici russi più seguiti, oltre 1 milione di lettori al mese: «Putin non può permettersi di fermare tutto. Ha bisogno di un’economia che funziona e cresce, deve rassicurare gli imprenditori e l’Occidente».

Nosik è soprattutto il simbolo di un’altra Russia. Quella ancora sottotraccia e minoritaria, ma viva e dinamicissima, che cresce, non accetta chiusure e si agita nello spazio democratico della rete: sono i milioni di giovani che diffidano della politica e si ritrovano sul social network V kontakte. Ne incrocio scampoli nella metropolitana di Mosca, intenti a compulsare i loro iPad. Sono i ventenni e trentenni, che s’infiammano per la crociata contro la corruzione, virus endemico e pilastro portante del sistema Putin, guidata dall’avvocato Aleksej Navalny, che sul sito RosPil contabilizza fino al centesimo i denari pubblici spesi in modo illegale, 40 miliardi di euro l’aggiornamento più recente. Oppure appoggiano le battaglie ecologiche di Evgenia Chirikova, quelle antidroga di Evgenij Rojzman o la guerra ai soprusi delle auto blu, guidata da Viktor Klepikov. «Navalny — dice Nosik — è la prima persona nell’opposizione russa a capire che l’alternativa politica non consiste nel creare una nuova nomenklatura, ma dev’essere costruita dal basso. Alexej non può cambiare la Russia da solo, ce ne vorrebbero mille. Eppure la strada è quella e lui ha già  iniziato».

Tutto questo è il futuro prossimo. Quello immediato avrà  ancora il volto, berlusconianamente levigato da un misterioso trattamento estetico, di Vladimir Vladimirovich. Se sarà  moderno e più democratico, ovvero guarderà  al passato e terrà  ancora il Paese sotto tutela autoritaria, lo sapremo presto. Ma il limite in questo caso non è il cielo. Secondo Gleb Pavlovskij, uno che lo conosce bene e gli ha fatto anche da consigliere, «la Russia è andata avanti» e «anche se Putin è un atipico e ha avuto sempre una marcia in più rispetto ai suoi colleghi del Kgb, la sua base culturale è quella sovietica e l’ha già  spremuta tutta. Oggi quella cultura non può più dire nulla sulla Nuova Russia e i suoi problemi». Sarà  allora in grado Putin, tornato zar, di liberarsi da Putin? Il lusso di Giano non gli è concesso. Perché se guardasse al passato, di facce ne perderebbe due.


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