by Sergio Segio | 2 Ottobre 2011 6:44
PALERMO – Per la prima volta, in Sicilia, le microspie non sono state piazzate nel covo di un mafioso, ma nelle cliniche private più esclusive del capoluogo. E le sorprese sono arrivate presto: «Perché dobbiamo spendere soldi…», si lamentava la dottoressa Maria Teresa Latteri, manager dell’omonima clinica che a Palermo opera dal 1948. Ai suoi medici diede un ordine perentorio, niente più “Tad”, il disintossicante che viene somministrato ai malati di tumore dopo la chemioterapia. Ma l’ordine non riguardava tutti i pazienti, solo quelli entrati in clinica con un «day service», per cui la Regione rimborsa solo 100 euro a seduta. Era il settembre 2009, due mesi dopo il provvedimento del pubblico ministero diventato assessore alla Sanità , Massimo Russo, che tagliava radicalmente i rimborsi alle cliniche private. Un medico della Latteri provò ad opporsi all’ordine sul “Tad”: «Glielo devi fare, ma che fa scherziamo? Il paziente si vomita, si disidrata». La risposta della manager fu risoluta: «Allora non hai capito che la prassi che fai tu costa alla clinica duecentocinquanta euro e quello mi dà cento euro».
Nelle intercettazioni sono finite pure le drammatiche parole dei malati, che telefonavano ai medici della clinica: «Sono rosso in viso, come se avessi delle vampate». Ma la politica del risparmio sembrava non ammettere deroghe. «Tu ragioni da medico, io da imprenditrice», disse la Latteri a uno dei suoi collaboratori che continuava a lamentarsi. «Io devo spendere il doppio di quanto spendevo prima, per non ricevere nulla». Durante le indagini, la Procura è stata addirittura costretta a intervenire alla clinica Latteri, per evitare conseguenze drammatiche ad un paziente a cui non sarebbe stata somministrata albumina. Il 4 agosto 2009, i carabinieri del Nas intercettarono la dottoressa Federica Latteri mentre diceva al telefono a Maria Teresa Latteri: «(…) Siccome per dire questa sta facendo albumina, io non gli faccio altri 10 giorni di albumina che si spendono un putiferio di soldi a matula (inutilmente, ndr)». La dottoressa Maria Teresa disse: «Nooo, infatti… ». E quasi per trovare una giustificazione, aggiunse: «Loro sperano che muoia». Loro, i parenti. Il giorno dopo arrivò un’ispezione in clinica. I vertici della Latteri si insospettirono. «Io al telefono non parlerò più di nulla», tagliò corto la manager della casa di cura.
Il sostituto procuratore Amelia Luise ha chiuso l’indagine e si appresta a chiedere un processo per i vertici della Latteri, ma anche per i responsabili di altre due cliniche palermitane, la Noto e la Maddalena. L’accusa è di truffa: le case di cura sarebbero riuscite a intascare doppi rimborsi dalla Regione, per i ricoveri e per gli esami. Ma il caso Latteri resta aperto. Sono scattate altre tre indagini, della Regione e delle commissioni d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale e sugli errori in campo sanitario. L’assessore Russo paventa la possibilità di «sospendere o revocare» l’accreditamento della struttura privata, che però respinge tutte le accuse. Ignazio Marino, che presiede la commissione sul Servizio sanitario, parla di «crudezza intollerabile» in quelle intercettazioni. Gli risponde il presidente dell’Associazione italiana di oncologia, Carmelo Iacono. «È grave quanto sarebbe accaduto. Ma questo è l’effetto della politica dei tagli. È necessario al più presto un incontro col ministro Fazio. Non mi stupirei se ci fossero altri casi analoghi a quello di Palermo».
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