Mafia, l’autista del boss accusa Schifani
PALERMO – Accusa il presidente del Senato Renato Schifani di essere uno dei politici «nelle mani di Cosa nostra», così come Saverio Romano e Totò Cuffaro, indica in un «ministro sardo» di cui non conosce il nome la talpa istituzionale che nel 2003 disse a Cuffaro «che stavano cercando Provenzano» (informazione poi passata dall’allora presidente della Regione all’ingegnere Michele Aiello, braccio economico del capo di Cosa nostra), fa il nome di Marcello Dell’Utri come il politico che «dopo le stragi del 92 si mise in contatto con gli uomini di Provenzano per prendere accordi che nel ‘94 portarono il boss a ordinare di votare Forza Italia» e rivela la convinzione del capo di Cosa nostra che Vito Ciancimino fosse stato ucciso perché, così come Salvo Lima, conosceva la verità sulle stragi. «Ora siamo rimasti solo in tre a saperla: io, Riina e Andreotti».
L’ultimo pentito di mafia che, al suo debutto in aula, calca il proscenio del processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, è Stefano Lo Verso, che di Provenzano fu fidatissimo autista, vivandiere, postino dal gennaio 2003 a ottobre 2004 quando Provenzano decise di tornare a Corleone dove fu arrestato un anno e mezzo dopo. Un anno e mezzo vissuto fianco a fianco con il capo di Cosa nostra di cui traccia un ritratto inedito e rivela i rapporti politici e le protezioni di cui Provenzano stesso gli disse di aver goduto. Le sue parole in aula che svelano il contenuto di verbali omissati dalla Procura scatenano un vespaio di polemiche. Il presidente del Senato, sulla cui iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Palermo circolano da tempo indiscrezioni, dà mandato ai suoi legali «di intraprendere ogni attività a tutela della propria onorabilità ed immagine» e dalle fila della maggioranza si leva il sospetto di accuse ad orologeria. «Si parla sui giornali di un governo Schifani ed ecco pronta una chiamata, si rifà vivo Andreotti ed ecco un retroscena stragista», attacca il ministro Gianfranco Rotondi. «E’ una barbarie», dice Sandro Bondi mentre Gasparri e Quagliariello parlano di «assurda mascalzonata di un pentito che parla ad orologeria».
A fare il nome di Schifani a Lo Verso sarebbe stato nel 2003 Nicola Mandalà , il giovane boss di Villabate che portò Provenzano a Marsiglia per l’operazione alla prostata. «Mi disse che non avevamo problemi né con i politici locali né con i nazionali. “Abbiamo Renatino Schifani, l’amico e socio di mio padre (Nino Mandalà , da poco condannato per mafia, ndr), Dell’Utri, Cuffaro e Romano”». Dei suoi rapporti e degli accordi con i politici invece fu lo stesso Provenzano a parlargli nel 2003 quando Lo Verso scoprì chi era quell’anziano che gli avevano detto di ospitare a casa: «Quando seppi chi era – ha detto il pentito rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo – mi preoccupai, ma Provenzano mi disse di non aver paura perché non lo cercava nessuno, era protetto da politici e forze dell’ordine, in passato da un potente dell’Arma e ora da Cuffaro che, dopo l’arresto dell’ingegnere Aiello, manteneva gli accordi».
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