«Nel 2050 il crollo della popolazione in età  lavorativa»

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ROMA — Non stupisce che il primo rapporto sul cambiamento demografico e sui legami tra demografia e prospettive economiche in Italia non sia stato preparato a cura di un think thank riconducibile a un partito. Già  John Stuart Mill sosteneva che i politici si trovano nella necessità  di tener conto degli interessi e dei desideri dei propri elettori, più che pensare al futuro. Si tratta invece di 216 pagine, che saranno pubblicate da Laterza, elaborate dai demografi Giancarlo Blangiardo (Milano Bicocca) e Antonio Golini (Roma Sapienza e rappresentante italiano alle Nazioni Unite per i problemi della popolazione) insieme al giurista Francesco D’Agostino, e che portano il timbro del Comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana.

Non si tratta di «roba da preti» né di prediche. Sono analisi scientifiche utili a chiunque voglia districarsi nel dibattito politico più stringente: da quello della tenuta dei conti pubblici, innescato dalla lettera della Bce, a quello delle pensioni, alle polemiche sul decreto sviluppo.

Dati ufficiali alla mano (elaborazioni da fonti Istat ed Eurostat, Onu e Ocse) il rapporto documenta quello che nella primavera 2010 il cardinale Angelo Bagnasco (che lo presenterà  oggi insieme al cardinale Camillo Ruini) definì il «lento suicidio demografico italiano».

L’Italia è il più vecchio Paese d’Europa e, nel mondo, è secondo solo al Giappone. Questo però non è il frutto di un destino cinico, baro e ineluttabile, né solo delle conseguenze dello sfavorevole contesto economico interno e internazionale (che vale anche per tutti, Europa in testa): è piuttosto il frutto — secondo il rapporto — di precise scelte effettuate dai governi e dai Parlamenti che si sono succeduti. L’Italia è infatti uno dei paesi dell’Ocse in cui è più bassa la percentuale di Pil che viene spesa per la famiglia e, quindi, il tasso di fecondità  è più basso. Agli attuali ritmi, nel 2050 nel nostro Paese ci sarà  un crollo della popolazione in età  lavorativa unica al mondo, non solo se rapportata ai Paesi emergenti, ma anche agli Stati Uniti.

In particolare il Rapporto della Cei individua nella legge Dini del 1995 sulle pensioni il singolo intervento legislativo che ha inciso in modo maggiormente negativo sulle dinamiche demografiche. Non però per gli scaloni e l’allungamento dell’età  pensionabile. «La percentuale dei contributi a carico delle imprese e dei dipendenti è rimasta complessivamente immutata, ma allora cambiò in modo radicale e definitivo la capacità  di finanziamento per una politica a favore della famiglia», si legge nel Rapporto. Facendo i calcoli di quanto è avvenuto nei successivi quindici anni, e cioè fino al 2010, ben 120 miliardi di euro (a prezzi 2008) sono stati drenati dalle risorse per le famiglie e per le donne lavoratrici (assegni familiari, per la maternità , gli asili nido, edilizia sociale), e spostate a finanziare il sistema pensionistico. C’è stata insomma un’ingente «redistribuzione delle risorse pubbliche dalle generazioni giovani a quelle anziane». Questo ha avuto effetti dirompenti soprattutto al Sud che ormai ha cessato — come ha messo in evidenza anche una recente ricerca della Svimez — di essere il serbatoio demografico della nazione.

La ricerca sfata anche una serie di luoghi comuni. Cioè che è solo l’economia che influenza la demografia e non anche viceversa. Il declino demografico ha infatti una relazione che non è monodirezionale ma biunivoca con la crescita o il declino economico. Se è vero che quando non c’è lavoro si fanno meno figli, è anche altrettanto vero che fare meno figli ha risultati collettivi, cioè sociali, disastrosi nel medio-lungo periodo (come già  messo in evidenza da John Maynard Keynes).

L’altro luogo comune da rivedere riguarda l’immigrazione. In Italia è considerata «una risposta di mercato» all’assenza di forza lavoro, ma si tratta di un fenomeno, secondo il rapporto, che non è in grado di risolvere strutturalmente il problema. Dal momento che anche gli immigrati una volta in Italia, e quanto maggiore è la loro integrazione, ricadono immediatamente all’interno del nostro schema demografico.


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