«Lotto per la libertà  La primavera araba non è ancora finita»

by Sergio Segio | 17 Ottobre 2011 6:38

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Una svolta, proprio come quella che voi tedeschi avete vissuto — da voi si dice die Wende — quando il Muro di Berlino venne giù». Frequentemente interrotto da applausi, Boualem Sansal ha tenuto il suo appassionato discorso nella cerimonia in cui gli veniva consegnato il Friedenspreis 2011, il Premio della pace che ogni anno l’Associazione editori e librai tedeschi assegna nell’ultimo giorno della Fiera. In platea, fra autorità  politiche (il presidente del Bundestag Lammert, l’ex Presidente della Repubblica von Weizsà¤cker), editori (Antoine Gallimard e Katharina Meyer di Merlin Verlag che pubblica Sansal in Germania), scrittori e intellettuali come Umberto Eco e il teologo Friedrich Schorlemmer, c’era una poltrona vuota, quello dell’ambasciatore algerino. «Peccato — ha detto Sansal nel suo discorso — perché attraverso la mia persona oggi è il popolo algerino a essere onorato. Quella poltrona rimasta vuota non è un buon segno per me, vuol dire che la mia situazione in Algeria non migliorerà  nonostante questo premio. Eppure voglio dire ai miei compatrioti, se mi ascoltano, che non siamo soli, che in questa sala affollata ci sono uomini e donne che credono in noi, ci sostengono, ci daranno il coraggio».

Scrittore di un Paese che ha conosciuto solo guerre («e ora ricevo il Premio della pace, è una felice contraddizione»), Sansal ha ripercorso la storia recente dell’Algeria. Per mettere in guardia i giovani movimenti democratici del Nordafrica che troppo spesso credono che la cacciata dei tiranni basta a cambiare tutto. L’Algeria, ha detto, ha conosciuto molte delusioni. A cominciare dal 1962, quando la dichiarazione di indipendenza dopo una guerra di otto anni si trasformò nella presa del potere di un regime militarizzato, poliziesco, burocratico. «La Libération n’etait pas la liberté». Poi, nel 1988, ha ricordato, un movimento democratico si diffuse nel Paese, ma non riuscì ad affermarsi. Nel ’91, con le elezioni vinte dal Fronte islamico — erano truccate, fu un risultato raggiunto con brogli e manipolazioni — la reazione dei militari porta all’annullamento del voto. Inizia qui il Decennio nero, la guerra civile, estremisti islamici che compiono massacri, militari che rispondono con altri massacri. E quando Bouteflika diventa presidente, metterà  d’accordo «turbanti» e «berretti», concedendo come in «un accordo mafioso» a entrambi la spartizione delle ricchezze. I Paesi occidentali, purtroppo dice Sansal, hanno dato grande fiducia a Bouteflika. Ma oggi che il vento è cambiato, che per i dittatori sembra non tirare più una buona aria, anche l’Europa ha un dovere: vigilare perché il processo democratico non sia schiacciato. Che non ci siano ancora vecchi trucchi, vecchi imbrogli.

Non parla, Sansal, dei suoi libri. Già  altri oratori prima di lui hanno ricordato Il villaggio del tedesco, Fermo posta: Algeri e il nuovo, Rue Darwin. Ricorda che non è facile vivere in un Paese dove chi ha il potere ti ritiene suo nemico, ti fa perdere il lavoro, ti controlla. Ringrazia la moglie Naziha, che lo accompagna, per aver diviso con lui gli anni duri. E per non aver mai smesso di resistere. «Undici anni fa, questo premio fu dato ad Assja Djébar, una scrittrice algerina che ha dedicato il suo lavoro e i suoi libri alle donne del nostro Paese, per ricordare una cosa che qui forse sembra normale: che la donna è un essere libero, e che quando anche una sola libertà  le viene tolta, il Paese in cui vive non può considerarsi un Paese civile. Sono state le donne, anche negli anni della guerra civile, a resistere. E continuano a farlo».

Diviso tra speranza e amarezza, pronto a sostenere i fermenti di rinnovamento (per questo ripete che non lascerà  l’Algeria) ma attento a ricordare che la pace e la democrazia non si realizzano da un giorno all’altro, Sansal conclude con un appello accorato. Nel clima di questo risveglio di libertà , di rivolta contro antiche oppressioni, «sempre più numerosi fra noi sono quelli che non vogliono più accettare il fatto che il conflitto israelo-palestinese continui a devastare l’esistenza e la coscienza dei nostri figli, dei nostri nipoti. Noi vogliamo che questi due popoli vivano liberi, e felici, in fratellanza. Vogliamo che israeliani e palestinesi sentano di non tollerare più questa situazione, che anche per il Medio Oriente ci sia una Wende, che anche là  i muri possano crollare». Bene ha fatto il presidente a rivolgere alle Nazioni Unite la richiesta di uno Stato palestinese sovrano. Può essere l’avvio di un nuovo corso, dove non si crederà  più ai miti del passato, guerre sante, crociate, giuramenti. «Ma è stato triste vedere che un uomo come Obama non abbia capito l’importanza del gesto di Abbas e non abbia saputo cogliere l’opportunità  che pure lui aveva detto di cercare nel famoso discorso del Cairo».

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