«La lettera della Bce come il ricatto di Marchionne»

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 ROMA. La partenza di questo nuovo insieme («Noi il debito non lo paghiamo») è tenuta a battesimo da Giorgio Cremaschi, leader storico della sinistra Fiom e ancora oggi presidente del suo Comitato centrale.

Ancora sacrifici per «pagare il debito». Un dogma indiscutibile, per molti protagonisti…
E non deve essere così. Mi pare che non pagare il debito oggi significhi dire «no», rimandare al mittente, la lettera di Draghi e Trichet, che è l’equivalente – per la società  italiana – del ricatto di Marchionne su Pomigliano. Questo debito non può essere pagato, ci troviamo davanti ormai a tassi da usura che lo rendono impossibile. Può essere diminuito, ricontrattato, ecc, ma non possiamo sottostare al vincolo del debito e dei patti europei, perché questi distruggono i nostri diritti. Come dimostra la lettera dei due banchieri, siamo già  molto avanti su questa strada. Non solo si permettono di dire al governo dove cambiare la spesa, ma anche di indicare quali diritti dei lavoratori vanno aboliti, fino a modificare la Costituzione per inserirvi l’obbligo al pareggio di Bilancio. Credo che siamo ormai una repubblica commissariata. Quindi non siamo più in una democrazia.
Fate anche una critica molto forte alla politica in Parlamento…
Assolutamente sì. Mi aspettavo – ma forse sono un illuso – che il dibattito sulla lettera fosse su quello. Invece è stata semplicemente fatta propria, senza discuterne. La politica italiana si comporta come nei confronti di un’amministrazione multinazionale che approva spese per miliardi di euro proposte dalla «tecnostruttura», per «salvare le banche», senza che deputati lautamente pagati dicano niente. E poi si mette a litigare sulle spese per il tè delle cinque. L’Italia in questo momento è così. Naturalmente la responsabilità  principale ce l’ha Bellusco, l’immiserimento della politica italiana deriva dalla sua permanenza lì. Temo che sia vero quello che diceva Woody Allen: «non litigate con un cretino, perché qualcuno potrebbe non accorgersi della differenza». L’opposizione mi sembra oggi in questa condizione.
Il movimento che parte oggi, è solo sociale o anche politico?
Ovviamente non puntiamo a scelte elettorali, ma vogliamo buttare dentro la politica italiana questi contenuti. Non a caso abbiamo fatto un parallelo con l’Islanda, un paese dove i movimenti dal basso sono riusciti a costruire rifermenti, iniziative e conquiste di democrazia. Questa è la questione di fondo. Il pagamento del debito rischia di compromettere il futuro di intere generazioni, avremo un massacro sociale senza precedenti e non siamo chiamati a discutere di nulla. Questo è mostruoso.
È un movimento eterogeneo, con componenti anche molto conflittuali tra loro. Come si supera in positivo questa frammentazione?
Noi abbiamo proposto un percorso, e non sarà  una cosa semplice. Abbiamo alle spalle numerosi tentativi andati male, ma abbiamo anche imparato molto. Vogliamo costruire anche strumenti e procedure democratiche, non possiamo ragionare solo con gli equilibri interni. Siamo partiti con una piattaforma da discutere e perfezionare, verificandola nel confronto con i movimenti. L’obiettivo è arrivare a dicembre a costruire un movimento organizzato che interviene nella politica e che definisce – non lo escludiamo – iniziative e mobilitazioni. Il 15 ottobre per noi è solo un momento, in questo percorso. Bisogna anche uscire dagli schemi tradizionali. Mi colpisce molto quello che sta avvenendo a Wall Street. Forse andare a presidiare la Banca d’Italia e fare una grande assemblea permanente là  sotto potrebbe essere un punto di partenza. Non è un discorso nazionalista, perché non siamo noi che vogliamo uscire dall’Europa, ma è l’Europa delle banche che deve uscirne.


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