L’irritazione di Fatah e il nuovo ruolo di Ankara

by Sergio Segio | 19 Ottobre 2011 6:33

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Entrambe le parti guadagnano dallo scambio, a cominciare dai consensi popolari. È dubbio invece che l’accordo sui prigionieri contribuirà  alla riconciliazione tra il partito Fatah del presidente dell’Anp Abu Mazen e il movimento islamico. Certo Abu Mazen ieri ha ricambiato con calore le congratulazioni ricevute via telefono dal premier di Hamas, Ismail Haniyeh. E ha anche salutato con gioia la liberazione di tanti palestinesi. Ad un certo punto però ha fatto riferimento a un presunta assicurazione ricevuta da Israele riguardo la futura scarcerazione di altri prigionieri, oltre i 550 che Netanyahu si è impegnato a mandare a casa entro due mesi. Ha lasciato capire «anche noi dell’Anp e di Fatah faremo liberare un po’ di detenuti».
È forte ma ben mascherata l’irritazione nell’entourage del presidente dell’Anp per l’improvvisa fretta di Hamas di chiudere l’intesa con Israele (dopo la rigidità  mantenuta per anni) rinunciando alla scarcerazione di prigionieri politici di primo piano come Marwan Barghouti (Fatah) e Ahmed Saadat (Fronte popolare). E proprio Barghouti si fa sentire dal carcere di Hadarim per denunciare di essere stato tenuto all’oscuro della trattativa e che gli stessi prigionieri di Hamas non sono stati consultati. «Non sapevano nulla persino i detenuti destinati all’esilio, nessuno ha chiesto la loro opinione», ha denunciato Barghouti attraverso il suo avvocato, Elias Sabag. Senza dimenticare che parecchi dei 550 prigionieri che verranno liberati nelle prossime otto settimane, avrebbero comunque lasciato il carcere entro breve tempo. Alza la voce anche Qadura Fares, direttore dell’associazione degli ex prigionieri politici. «Dentro di me c’è un misto di gioia ed amarezza – spiega Fares – sono felice perché mille palestinesi lasciano la prigione ma anche deluso per l’occasione perduta di ottenere la liberazione di tanti dirigenti politici incarcerati». La leadership di Hamas respinge le accuse, sostenendo che non si poteva raggiungere un accordo migliore con Israele (Netanyahu dice lo stesso, ma al contrario, alla sua opinione pubblica)
Lo scambio di prigionieri è servito ad Hamas anche per stringere i rapporti con la Turchia di fronte ai cambiamenti che la «primavera araba» ha innescato nella regione. I leader del movimento islamico da settimane smentiscono di avere problemi con il regime di Bashar Assad, che da molti anni accoglie e protegge i dirigenti di Hamas. Ma l’intensità  delle proteste anti-Assad hanno messo gli islamisti palestinesi in una posizione difficile. La Fratellanza islamica nel resto della regione a mezza bocca accusa Hamas di chiudere gli occhi di fronte ai massacri di tanti siriani sunniti per mano di un regime dominato dagli alawiti (sciiti) e alleato dell’Iran. Il capo in esilio di Hamas, Khaled Mashaal, non vuole tagliare il cordone ombelicale subito ma nel frattempo cerca nuove alleanze, guardando alla Turchia di Recep Tayyb Erdogan, sempre più protagonista sulla scena mediorientale e in (apparente) rotta di collisione con Israele. Ankara, attraverso il vicepremier Bulent Arinc, ha rivendicato un ruolo «importante» nell’accordo che ha portato alla liberazione di Gilad Shalit in cambio di prigionieri palestinesi. Subito dopo l’annuncio dell’intesa, Khaled Meshaal aveva espresso il proprio plauso per il ruolo della Turchia che ora, non a caso, accoglierà  10 dei prigionieri destinati all’esilio.

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