by Sergio Segio | 6 Ottobre 2011 6:27
Questo di Maurizio Ferraris è un libro inevitabile, come il tracciato di certe rotte di collisione sulla carta nautica. Anima e iPad. E se l’automa fosse lo specchio dell’anima? (Guanda, pagg. 185, euro 16,50) rappresenta infatti la logica conclusione di un percorso ormai ventennale. Dopo aver esaminato, sulla scia di Derrida, il fenomeno dell’interpretazione (Storia dell’ermeneutica, 1988), della tecnologia (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005) e dell’iscrizione (Documentalità . Perché è necessario lasciar tracce, 2009), era giocoforza che le ricerche dello studioso convergessero verso l’iPad, l’oggetto che oggi meglio raffigura il connubio fra fisico e mentale. Tutto comincia dalla constatazione che l’evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell’oralità e alla scomparsa della scrittura, ma, al contrario, a una proliferazione di quest’ultima. Prova ne sia che i telefonini, dopo essersi rimpiccioliti, si sono ingranditi di nuovo fino all’iPad, per avere uno schermo e una tastiera (dunque per poter scrivere, non per poter parlare); sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia superato quello vocale. Dunque, nel suo profondo, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, in cui tutto deve lasciare una traccia ed essere archiviato, col malizioso corollario per cui «la pentecoste è un fenomeno postale: non è la calata dello spirito, è la propagazione della lettera».
Eppure, se senza la tabula (vale a dire quel sistema d’iscrizioni e trascrizioni che forma la cultura) non c’è spirito, pensiero o mente, allora il passo successivo vedrà un progressivo avvicinamento fra anima e automa (il solito iPad). Con un affondo improvviso, Ferraris ci ricorda che non c’è niente di più umano della tecnica (e niente di meno umano di un uomo privo di tecnica), mentre al contempo ci svela una triste sorpresa: chi si aspettava da lei una qualche forma di emancipazione, dovrà ricredersi, constatando, al contrario, come essa si sia trasformata in un nuovo veicolo di sfruttamento. Essere sempre connessi, infatti, implica essere sempre disponibili al lavoro, «come pompieri in caserma». Ma c’è di peggio, in quanto nel nostro mondo vige ormai una registrazione totale. Basti pensare alla nozione di tracciabilità , che garantisce sia la provenienza di un prodotto, sia il controllo degli utenti telefonici e telematici (con buona pace dei criminali intercettati). Morale: non è affatto ovvio che Internet renda stupidi. Quel che è certo è che può rendere schiavi, secondo le abbaglianti premonizioni di Schmitt, Jà¼nger e Foucault.
D’altronde, se l’addetto al call center può essere trasformato in macchina, è perché ogni uomo nasconde una essenza di macchina. Definendo la coscienza un “effetto collaterale”, Ferraris cancella via via le differenze fra anima e automa, come nella depressione (che rende sensibili alla ripetizione facendo emergere l’automa che noi siamo) o nella vita quotidiana (che nella maggior parte del tempo trascorriamo a non pensare). Così giungiamo al punto, ovvero al dubbio che noi stessi possiamo essere automi: «Siamo automi spirituali ma liberi, cioè talmente complicati da non sapere di esserlo»…
Esposto in maniera limpida, serrata e brillante, il testo consta di due parti, ovviamente legate a doppio filo: da un lato l’ampia trattazione vera e propria, dall’altro una circoscritta ma puntuale confutazione delle tesi sostenute dal grande filosofo americano John Searle. Mettiamo tra parentesi la seconda sezione, più complessa e specifica, per osservare come Ferraris miri a superare il dualismo cartesiano fra anima e corpo, spirito e materia, o meglio, per usare un’altra contrapposizione, fra lettera e spirito. Lo scopo? Riabilitare la prima (poiché, come ci spiega con un gioco di parole, «la lettera gode di una cattiva stampa»), e riconoscere il ruolo della materia nella costituzione dello spirito. Ciò significa appunto mostrare l’analogia fra anima e iPad, ossia «dimostrare che la nostra mente è un apparato scrittorio». La lettera, pertanto, non va intesa alla stregua di un accessorio inerte, ma come «la condizione di possibilità dello spirito». Altrimenti detto, materia e forma sono inseparabili, malgrado chi si ostina a immaginare un omino (l’Homunculus) nascosto nel cervello per guidare i nostri atti corporei.
Anche nel chiuso della nostra anima, prosegue l’autore, c’è qualcosa come un documento, una iscrizione, una tabula su cui si forma ciò che chiamiamo idee, intenzioni, coscienza. Da qui una serie di note sull’essenza della tecnica, individuata nella registrazione, ossia nella memoria, la quale non è solo la madre delle Muse (come dicevano i greci), ma del pensiero in generale. Senza registrazione non c’è tecnica, né tantomeno quella “tecnica delle tecniche” che è la scrittura. La memoria, perciò, non è qualcosa che si aggiunge a una psiche già formata, bensì «costituisce la stoffa di cui è fatta la nostra anima». Peccato non poter raccontare le ultime pagine, dove si dispiega un’autentica fantasmagoria, fra tombe e bare a forma di telefonino, spettri telematici, mummie e resurrezioni. Questo corredo funebre non è una bizzarria, ma funge da reperto per comprovare come «la struttura testamentaria sembri costituire l’essenza del web». Il tono spesso ironico non nasconde la gravità di tali implicazioni, come quando Ferraris parafrasa il Vangelo. Protendendo un iPad, per esempio, potremmo dire: «Prendete, questo è il mio corpus» (ovvero l’insieme di tutte le iscrizioni). Se questo è vero, tanto vale arrendersi, e infine riconoscere, negli ultimi modelli della Apple, le nostre nuove Tablet della Legge.
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