Libia, inizia la caccia al petrolio

by Sergio Segio | 30 Ottobre 2011 6:44

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Petrolio. La sua scoperta e le guerre che infiamma, le spie che spiano le spie, le paure e gli appetiti delle grandi potenze, mazzette, sospetti, segreti. Il pozzo è quello di Bir Zelten e la Libia quella prima di Gheddafi. L’anno il 1959, il mese maggio. I diplomatici inglesi vengono a sapere dagli americani che la Esso ha riempito in appena dodici ore 17.500 barili in uno sperduto angolo di Cirenaica, re Idris è ancora all’oscuro del tesoro che c’è sotto il suo regno, i francesi – che invece sanno – subodorano che Washington li voglia tenere alla larga da Tripoli. Poi ci sono anche gli italiani. A Londra sono sicuri, fin dal 1948, «che il loro ritorno nell’ex colonia è un tema assolutamente fuori discussione, perché contrasta con le nostre necessità  strategiche». È ormai chiaro che in Libia c’è tanto di quel petrolio da fare ricco chiunque allungherà  le mani su quelle terre. È un dirigente della Shell che, «in forma confidenziale», avvisa il Foreign Office: «Vi sono buoni motivi per sperare che lì si possa produrre in futuro dalle 10 alle 20 tonnellate di greggio l’anno». Inglesi e americani sono in agguato per spartirsi la torta. Ma, all’improvviso, un dispaccio top secret comunica al ministero degli esteri britannico che a una compagnia di Roma (la Cori, Compagnia ricerche idrocarburi, sussidiaria dell’Agip mineraria del gruppo Eni) è stata rilasciata – nel novembre 1959 – una concessione nell’area di Jaghbub. L’ha strappata sorprendentemente ad altre sei società  Usa, il messaggio riporta anche voci sugli italiani «che hanno ampiamente unto le ruote». Tangenti.
Petrolio. Ieri come oggi, per averlo si combatte con ogni arma. Dalle spie in azione nel dopoguerra ai primi raid aerei francesi su Tripoli della primavera del 2011 fino alla morte di Gheddafi e alla dichiarazione di conclusione delle operazioni annunciata per domani. Bombardamenti, antichi risentimenti che ritornano, «campagne d’Africa» in nome della democrazia e della pace. Ma soprattutto patti, in vista di futuri contratti petroliferi. Sessanta anni dopo come sessanta anni prima.
Petrolio. Tutte le manovre che hanno preceduto e accompagnato il ritrovamento di quella straordinaria ricchezza nel sottosuolo libico sono ricostruite dal 1948 al 1963 in alcuni documenti inglesi rintracciati negli archivi di Kew Gardens, carte classificate «secret» e «top secret» e indirizzate dai servizi di sicurezza e dalle ambasciate al premier britannico o ai suoi ministri. Informative, report, relazioni sullo scenario magrebino e mediorientale, note riservate. Una collezione di atti che racconta tutto quello che si muove intorno al petrolio negli anni prima del colpo di stato – 1 settembre 1969 – che porterà  al potere il colonnello Gheddafi. Nei dossier di Kew Gardens c’è anche molta Italia. E a proposito di quello scambio di bustarelle, si fanno anche i nomi di due libici. Alti dignitari di corte. L’ombra di Enrico Mattei è in ogni incartamento, agli inglesi spaventa la sua intraprendenza «che potrebbe creare problemi agli accordi petroliferi più tradizionali». Si fa cenno anche a un intrigo americano «che ha l’obiettivo di garantirsi una percentuale dei guadagni italiani e nel contempo dirottare gli interessi di Mattei verso l’Europa meridionale, a scapito della francese Saharan Oil», ovvero La Compagnie de Recherches et Exploitation de Pétrol au Sahara.
Siamo ancora lontani da Bescapè, dove il 27 ottobre 1962 precipita nelle campagne lombarde il piccolo aereo che trasporta da Catania a Milano il presidente dell’Eni. E una nota trasmessa all’ufficio del premier inglese Clement Attlee (schedata Prem 8/1231, datata 21 aprile 1948 e «la cui circolazione è strettamente limitata all’uso personale del primo ministro») spiega come «la Cirenaica ha assunto un’importanza strategica vitale» e avverte che «sostenendo il ritorno della Tripolitania all’Italia ci giocheremmo il rispetto del mondo arabo e sarebbe in serio pericolo la nostra posizione in Medio Oriente». Per una decina di anni gli inglesi seguono gli sviluppi politici nello scacchiere mediterraneo, un periodo dove si intensificano i sondaggi in territorio libico alla caccia di petrolio «ma con risultati poco soddisfacenti». La svolta è alla fine del 1957.
È esattamente il 27 gennaio 1958 quando la signora Hedley-Miller del Foreign Office invia una nota (T 236/5964) al Tesoro: «Un mese fa, una controllata della Standard Oil Company/New Jersey ha individuato del petrolio al confine con l’Algeria […]. Tuttavia è impossibile dire qualcosa di definitivo sulle prospettive della Libia come paese produttore[…]. È infine da rilevare che i libici non hanno garantito alcuna concessione petrolifera agli italiani». Aggiunge la Miller: «Il nostro ambasciatore ha appreso “da una fonte molto autorevole” che ciò è dovuto all’avversione personale di re Idris nei loro confronti. Si ritiene che il signor Mattei sia molto arrabbiato».
La scoperta del petrolio moltiplica le analisi e le ansie su Tripoli. Il 21 maggio del 1959, Harold Caccia, ambasciatore britannico a Washington, spedisce un messaggio top secret (Prem 11/2743) a Londra: «La Standard Oil ha comunicato al Dipartimento di Stato americano che in Libia si trovano grossi quantitativi di petrolio di alta qualità […]». Stando al Dipartimento, «la Libia ha vinto il suo jackpot[…]». Appena undici giorni dopo dal Foreign Office parte un altro dispaccio (Prem 11/7243) per l’ambasciata di Tunisi: «C’è il petrolio, la notizia è ancora segreta anche se presto il governo libico ne verrà  a conoscenza[…]». Da quel momento una fitta corrispondenza si intreccia fra Londra e le sue sedi diplomatiche in Nord Africa. È l’11 giugno del 1959 quando anche re Idris sa cosa c’è sotto la sua Libia. Gli inglesi cominciano ad agitarsi, a ipotizzare ciò che accadrà . Rapporto (Fo 371/138785) del Foreign Office del 13 giugno 1959: «I benefici economici potrebbero generare pressioni sugli americani e anche su di noi perché si arrivi alle rimozioni delle nostre basi militari».
È un’estate di fibrillazione fra Washington e Londra. Poi, in autunno, il colpo di scena. È l’ambasciata a Bengasi che il 25 novembre scrive (Fo 371/138787) al ministero degli Esteri: «Il 22 novembre è stata rilasciata una concessione petrolifera ad un’impresa italiana, la Cori[…]. Sembra che se la sia aggiudicata sotto il naso di altre sei compagnie (che ne avevano fatto richiesta in precedenza) ma il governo libico le ha dichiarate “non idonee”. Inoltre la Cori ha accettato di pagare ai libici una percentuale del 17 per cento, al posto di 12,5 previsto dalle legge libica sul petrolio estratto[…]. Stiamo cercando di saperne di più[…]». Gli inglesi indagano e il 26 novembre da Bengasi informano (Fo 371/138787) ancora Londra: «Ci risulta che Abdallah Abid è implicato nella faccenda della Cori e non vi è dubbio che anche Busairi Shalhi si sia mosso per convincere in tal senso re Idris[…]. L’estate scorsa, Abdallah ha compiuto un viaggio in Italia. Stando alle voci che circolano qui, le imprese petrolifere gli hanno ampiamente unto le ruote». A quel punto gli inglesi sono furiosi. Cercano altre informazioni. Il 10 dicembre 1959 dall’ambasciata di Tripoli parte l’ennesimo messaggio (Fo 371/138787) per il Foreign Office: «Nel corso di una conversazione, il manager della Arab Bank ha detto a Cronly-Dillon, nostro addetto commerciale, che a suo parere la Cori è stata sostenuta da capitali americani. Le compagnie Usa sono ansiose di impedire che la francese Saharan Oil entri nel mercato libico. Finanziando un’impresa italiana, gli americani sperano di assicurarsi un punto di appoggio in Italia».
Le cose non sono andate come le avevano immaginate gli inglesi. E soli tre anni dopo Enrico Mattei è già  morto. C’è chi dice ucciso. Dai mafiosi siciliani – attraverso Cosa Nostra americana – su mandato delle potentissime Sette Sorelle. O dai servizi segreti francesi. Per i suoi contatti – un’altra “via” per assicurarsi energia – con il Fronte di liberazione algerino. Oro nero. Petrolio.

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