Le case popolari e quell’impossibile affare di Stato

by Sergio Segio | 12 Ottobre 2011 7:25

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E Renato Brunetta assicurava di essere impegnato in una «battaglia sovrumana in casa mia» (evidentemente il suo partito) per far passare l’idea. Finché, spossato, si è sfogato con la Stampa un giorno del 2009, accusando gli enti locali di remare contro per «ragioni di puro potere». Che si potrebbero facilmente tradurre in posti di lavoro, clientele, poltrone…
Posti di lavoro ce ne sono, eccome: gli ex istituti per le case popolari hanno 4.671 dipendenti. Risvolti clientelari, poi, proprio non sono da escludere, considerando il numero degli inquilini: nei 768.047 alloggi che risultavano censiti come occupati tre anni fa in una indagine Censis-Federcasa-Dexia abitano due milioni di persone. Tutta gente che vota. Per quanto riguarda infine le poltrone, basta farsi un giretto nei vari siti internet dei vari Iacp, Aler o Ater, le strutture pubbliche che gestiscono il patrimonio. Qualche assaggio? Il commissario dell’Ater del Comune di Roma è l’ex vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, il destrorso Bruno Prestagiovanni. Il suo collega dell’Ater provinciale è Massimo Cacciotti, già  candidato pdl alla Regione. Alla presidenza dell’Aler, l’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale, è stato collocato Loris Zaffra, segretario cittadino del Psi craxiano. Consigliere delegato dell’Acer Bologna è Forte Clò, dirigente comunista a quattro ruote motrici, sindaco, consigliere provinciale, poi responsabile dei Ds per il terzo settore. Allo Iacp di Caserta il presidente della Provincia Domenico Zinzi, onorevole del Pdl, ha piazzato Vincenzo Melone, ex consigliere provinciale di An. All’Ater di Frosinone è planato Enzo Di Stefano, ex capogruppo nel Consiglio regionale del Lazio della Lista Polverini…

Ma non sono soltanto «ragioni di puro potere» a frenare la vendita delle case popolari. Una possibilità , ricordiamo, che esiste per legge da vent’anni. Esattamente dal 30 dicembre 1991. E di alloggi ne sono stati ceduti già  numerosi, anche se per incassi decisamente modesti. Fra il 1993 e il 2006 gli inquilini degli ex Iacp hanno comprato 154.768 appartamenti, per un incasso di 3 miliardi 665 milioni. In media, 23.680 euro per ogni unità  immobiliare con una punta, nel 2006, di 27.046 euro. Assumendo per buono questo valore medio, e ipotizzando che si possano effettivamente vendere agli inquilini tutti gli oltre 768 mila alloggi affittati, l’introito non raggiungerebbe perciò i 21 miliardi di euro. Un quinto rispetto alla pirotecnica stima di Brunetta, che sei anni fa parlava di un valore catastale di 100 miliardi. E comunque molto meno di quell’incasso (30 miliardi) favoleggiato ora. Per giunta, gli immobili sono spesso così malridotti che gran parte delle somme ricavate nel passato dalle cessioni, sostiene la Corte dei conti, sono state spese per manutenzioni straordinarie: in Lombardia il 39,3%, nel Lazio il 46,55%, in Puglia l’80,5%.

Certo il patrimonio è teoricamente immenso. Il rendimento, tuttavia, è inesistente. Nel 2006 i ricavi sono ammontati a 471,4 milioni, con una media di 1.041 euro l’anno per ogni appartamento: 87 euro al mese. Il massimo a Terni, 127 euro. Il minimo a Latina, 39 euro. Senza considerare le spese per i lavori, gli stipendi del personale, e tutti gli altri costi. Secondo una indagine della Corte dei conti, nel quinquennio 1999-2003 erano stati spesi per la manutenzione straordinaria di ogni alloggio popolare della Campania 4.267 euro, a fronte di un canone medio riscosso pari a 42,12 euro mensili: in cinque anni, 2.527 euro.

Il fatto è che le case popolari sono afflitte anche da due piaghe micidiali. La prima è quella dell’abusivismo. Dice l’indagine Censis-Federcasa che gli appartamenti occupati da inquilini senza titolo sono 21.126, dei quali 5.863 nel solo Comune di Roma e 3.409 in quello di Milano. Le percentuali più alte di abusivismo sono però a Palermo, dove il fenomeno coinvolgerebbe (ma sono dati del 2006) circa 3 mila degli 11 mila alloggi Iacp, cioè oltre il 27%, e a Catania, con il 23,9%. Sempre secondo quello studio, il capoluogo etneo era nel 2006 il più colpito dalla seconda piaga: la morosità . La percentuale di affitti «evasi» era al 92,5%. Un dato astronomico, che faceva impallidire quello di Cosenza, dove superava il 75%. Pur senza avvicinarsi a queste vette inarrivabili, la morosità  toccava livelli assolutamente ragguardevoli a Cagliari (44%), nel Comune di Roma (41,2%), a Palermo (34,7%) e a Torino (32,5%). Nel solo 2006 sono andati perduti più di 80 milioni di euro. E il tasso di evasione superava di ben tre punti quello del 2001: dal 12,9% al 15,9%. La risposta ai propositi di vendita, con la previsione di introiti stratosferici, è tutta in questa sfilza di numeri incredibili. Ammesso che tutti abbiano i soldi, quanti saranno disposti a comprare casa sapendo di poterci restare a vita spendendo una miseria, o magari senza nemmeno pagare l’affitto?

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