«Così Unicredit ha raggirato il Fisco»

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MILANO — Il rischio: è questo elemento a distinguere un aleatorio investimento in titoli (che produce dividendi non a caso esenti da tasse per il 95%) da un tranquillo deposito interbancario, che matura interessi tassati invece per il 100%. Ma nell’operazione proposta nel 2007 dalla banca inglese Barclays e accettata da Unicredit, apparente investimento in «strumenti partecipativi di capitale» emessi in lire turche tra Lussemburgo-Londra-Milano, era stato pianificato appunto il contrario di un investimento: «l’assenza del rischio connesso al rendimento di titoli», «l’evidente concertazione tra Unicredit e Barclays», la «sostanziale predeterminazione dell’entità » e la «preventivata conoscenza della redditività » reciproca, insomma la «circolarità  dell’operazione». Sicché i frutti del teorico investimento in titoli, qualificati dalla banca come dividendi e dunque soggetti a una tassazione mite, in realtà  sarebbero stati «fraudolenta trasfigurazione» di interessi di un deposito interbancario, sui quali Unicredit avrebbe dovuto pagare 245 milioni di euro in più nelle dichiarazioni relative al 2007 e 2008: i soldi che martedì il gip Luigi Varanelli, accogliendo per la prima volta in Italia la prospettazione del procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha perciò sequestrato alla banca (anche ieri dettasi «sorpresa» e «convinta della propria correttezza») guidata all’epoca dall’ora indagato amministratore delegato Alessandro Profumo.
A riprova dell’assenza di rischio e dell’accordo a tavolino sin dall’inizio tra Barclays e Unicredit per «realizzare i propri obiettivi a scapito dell’Erario italiano», gli inquirenti propongono sia documenti sia dichiarazioni sia consulenze contabili. A smontare e rimontare i termini dell’ operazione finanziaria nella sua complessa tecnicalità , infatti, in base agli atti risulta essere stata non l’Agenzia delle Entrate (alla quale in questo caso la Procura non si è rivolta), ma una eterogenea squadra messa insieme per l’occasione dal pm Robledo: un ispettore della Banca d’Italia, Emanuele Gatti; un ex ispettore della Banca d’Italia, Ciro Carlino, che anni fa sempre con quel pm aveva lavorato al processo per la bancarotta Trevitex risoltosi in 800 miliardi di lire di transazioni e risarcimenti sborsati dalle varie banche coinvolte; un professore dell’Università  di Bologna, Roberto Tasca, ordinario di Economia degli intermediari finanziari; un fiscalista milanese, Paolo Ludovici, previa verifica di assenza di potenziali conflitti di interessi con il suo lavoro nello studio tributario «Maisto e Associati»; gli investigatori del Nucleo di Polizia Tributaria della GdF di Milano; e i due ingegneri informatici, Maurizio Bedarida e Giuseppe Dezzani, che con particolari software hanno analizzato i dati rilevanti tra i 4 terabyte (l’equivalente di migliaia di faldoni) acquisiti dalla perquisizione nei server di Unicredit.
Così, da differenti punti di vista, sono emersi elementi convergenti. Lo schemino sequestrato dalla Gdf nella borsa di un alto dirigente Unicredit, che il gip definisce «vera e propria confessione stragiudiziale» laddove il manager appunta a mano la «conoscenza sostanziale dei meccanismi e dei vantaggi controparte (seppur non contrattualizzati)», e ammette l’«ottimizzazione fiscale» come «obiettivo» e «non effetto» collaterale. Poi il fatto che i possessori dei titoli apparentemente trattati non godessero dei «tipici di diritti di voto, controllo, gestione e informazione». Quindi l’accorto azzeramento di qualunque minimo rischio rispetto alla redditività  programmata a freddo tra le due banche: al punto che persino la valuta dei titoli, cioè la lira turca, «fu preventivamente convenuta e servì per fruire del maggior tasso di interesse (il quintuplo) che all’epoca era riconosciuto rispetto all’euro». Fino alla testimonianza della responsabile della sede milanese della banca inglese Barclays, Lesley Jackson: «Le operazioni più complesse sui derivati vengono registrate direttamente da Londra», mentre l’operazione con Unicredit fu «registrata utilizzando la filiale di Milano» e «da questo punto di vista fu un’eccezione», perché c’era da «garantire una prestazione più performante dal punto di vista fiscale per la controparte» Unicredit.


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