L’ultimo strappo di Marchionne

by Sergio Segio | 4 Ottobre 2011 7:23

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Questa «cinghia di trasmissione» subì una prima rottura con l’elezione di Antonio D’Amato nel 2000, sull’onda di una Vandea dei «piccoli padroncini» che Agnelli patì e salutò a modo suo, con una delle frasi che resteranno negli annali della Repubblica: «Hanno vinto i berluschini». Ma undici anni e molte polemiche dopo, c’è voluto il super-manager italo-svizzero-canadese a compiere la rottura definitiva. Una rottura che, al di là  della portata simbolica, ha un profondo significato politico ed economico. Mentre esce da Confindustria, la Fiat sembra fare un passo in più verso un’altra uscita, molto più significativa: l’uscita dall’Italia.
Un’uscita da un impianto culturale (le pratiche concertative e le regole associative, la contrattazione nazionale e la costituzione materiale) che prelude sempre più all’uscita da un sistema industriale. Un’uscita per altro largamente annunciata, e larvatamente preparata, nel corso di quest’ultimo anno e mezzo. Gli accordi separati del 2010 (Pomigliano D’Arco a giugno e Mirafiori a dicembre) erano già  un implicito «manifesto» pubblico del modello Marchionne: mani libere nelle fabbriche e intese con chi ci sta, se serve anche al di fuori della gabbia del contratto collettivo. Ora, con la lettera in cui ufficializza l’addio del Lingotto a Viale dell’Astronomia a partire dal primo gennaio 2012, l’amministratore delegato rende esplicito quel «manifesto». La Fiat «è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale, con 181 stabilimenti in 30 Paesi». Non può permettersi il lusso di «operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato».
L’inciampo italiano, per Marchionne, è rappresentato dal sistema di regole alla quale Confindustria ha scelto di restare ancorata, rifiutando di ascoltare la sirena che da Torino cantava ormai da un paio d’anni. Un sistema che ruota intorno alla difesa del contratto collettivo nazionale, che deve garantire certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori, in tutti i settori e in tutto il territorio nazionale. Alla valorizzazione dei contratti aziendali, che disciplinano tutte le materie «delegate», anche in deroga parziale al contratto nazionale, ma con i limiti e le procedure disciplinate da quest’ultimo. Al principio della rappresentatività  e della maggioranza, che garantisce la validità  e l’applicazione di questo doppio impianto contrattuale dentro le fabbriche.
Questa piattaforma è stata ribadita da Confindustria e sindacati con l’accordo del 28 giugno scorso, che ha sancito una ricucitura importante nel metodo della concertazione, con il ritorno al tavolo, e alla successiva intesa, anche della Cgil. Quell’accordo a Fiat andava stretto. Perché non lasciava sufficiente discrezionalità  alle aziende, soprattutto sui licenziamenti. È nato così l’articolo 8 della manovra d’agosto. Con quella norma il governo è venuto incontro alle richieste Fiat, cogliendo un varco lasciato aperto dall’accordo di giugno, che allarga anche alla «legge» (e non solo al contratto nazionale) lo spettro delle materie «delegate» alla contrattazione aziendale in deroga. Il ministro Sacconi, con quel blitz agostano, ha stabilito che le intese aziendali possono derogare alla legge o al contratto nazionale, compreso lo Statuto dei lavoratori. In questo modo salta l’intero apparato degli istituti di tutela dei lavoratori: dalle mansioni agli inquadramenti, dal part time agli orari. Ma soprattutto, l’articolo 8 concede alle imprese, di fatto, la libertà  di licenziamento.
Per questo la Cgil è scesa in piazza il 6 settembre, decretando lo sciopero generale. Per questo, soprattutto, Confindustria e sindacati sono tornati a sedersi al tavolo interconfederale, e il 21 settembre hanno siglato un nuovo accordo, confermando «l’autonoma determinazione delle parti sociali» in tutte le scelte relative «alle relazioni industriali e alla contrattazione», nazionale e aziendale. Una scelta coraggiosa e responsabile. In una stagione di forte crisi economica e di alta instabilità  politica, le parti sociali hanno ristabilito il primato della concertazione, e hanno disinnescato l’inutile e pericolosa «mina» dei licenziamenti. Il governo Berlusconi ha inserito l’articolo 8 in un «luogo» improprio, il maxi-decreto anti-deficit, come fattore di condizionamento ideologico e di scardinamento sociale. L’accordo interconfederale del 21 settembre (al di là  delle diverse esegesi giuslavoristiche che l’hanno accompagnato) ha opportunamente disinnescato quella «mina». Ristabilendo, come nel ‘92, una benefica «supplenza» nei confronti di una politica irresoluta e irresponsabile.
Ora è proprio contro quella mossa che si scaglia Marchionne. Ed è proprio quella mossa che il «ceo» della Fiat usa come argomento, per giustificare il «divorzio» da Confindustria. Il «lodo» del 21 settembre «rischia di snaturare l’impianto previsto dalla nuova legge», e di «limitare fortemente la flessibilità  gestionale». Evidentemente, un esito del tutto inaccettabile per il Lingotto. È questo, dunque, il «peccato» di Emma Marcegaglia. Aver riportato la Confindustria al tavolo della concertazione, e aver ricostruito la trama lacerata dei rapporti sociali, all’insegna di un’idea quanto più possibile condivisa delle relazioni industriali nelle fabbriche, dei diritti fondamentali delle persone, e alla fine dell’Italia che produce, che lavora e che deve cercare faticosamente una comune via d’uscita dal declino.
Lo «strappo» di Marchionne ha quindi una chiave di lettura, visibile, che è prevalentemente socio-economica. Volendo, ce n’è anche una meno visibile, e tutta politica. La Confindustria della Marcegaglia, a sua volta, ha appena consumato la rottura con il governo Berlusconi, lanciando l’ultimatum («o fa le riforme, o va a casa») e proponendo il progetto alternativo «Salviamo l’Italia» (insieme a Rete Imprese). La Fiat non condivide le critiche al Cavaliere (non a caso John Elkann sabato scorso ha stroncato il progetto confindustriale dicendo «non è tempo di proclami e proposte generiche». E allora prende definitivamente e pubblicamente le distanze, e se ne va da Viale Astronomia. E’ un’interpretazione maliziosa, che i vertici del Lingotto smentiscono seccamente. Ma allora perché Marchionne parla di «Confindustria politica», che per Fiat «ha zero interesse»? E perché Fabrizio Cicchitto esulta per il «divorzio», dicendo «ora la Marcegaglia è isolata»? E perché, infine, solo un’ora dopo aver proclamato l’uscita da Confindustria il Lingotto annuncia anche un altro anno di cassa integrazione a Mirafiori, generosamente coperto, pro-quota, dal denaro pubblico?
Ma al di là  delle dietrologie, conta quello che si vede. E quello che si vede è che la Fiat di Marchionne, a dispetto delle promesse, fatica a tenere la competizione globale e non regge la competizione nazionale. I numeri parlano chiaro. Sia quelli della finanza, sia quelli dell’industria. Dal 3 gennaio 2011, data dello spin off del Lingotto, i titoli del gruppo sono crollati. Fiat Spa valeva 6,9 euro, e ora ne vale 3,9, Fiat Industrial valeva 9 euro e ora ne vale 5,3. Fiat Spa, che allora capitalizzava 7,5 miliardi, oggi è scesa sotto i 4 miliardi. La produzione nazionale è inferiore alle attese, lontana anni luce dagli 1,4 milioni di auto previsti nel 2014. Le vendite continuano a ridursi, con un’ulteriore caduta del 4,7% a settembre, che porta la quota di mercato domestico ad un modesto 29,7%.
I nuovi modelli continuano a latitare: a prescindere dalla Nuova Panda appena lanciata, i 9 nuovi modelli e i 4 restyling previsti non si vedranno prima dell’inizio del 2013, e l’uscita della Giulia Berlina e Station Wagon è slittata al 2014. A parte la chiusura certa di Termini Imerese, della Irisbus di Avellino e della Cnh di Imola, sul destino degli impianti italiani regna la confusione più totale. Il mitico progetto «Fabbrica Italia» resta un’araba fenice. Il piano industriale è tuttora ignoto. La conferma degli investimenti su Mirafiori, formulata dallo stesso Marchionne, è sicuramente un fatto positivo, come lo è la garanzia che lì si produrrà  la Jeep. Ma non si può non vedere che per Torino siamo ormai al terzo dietrofront: prima doveva produrre la Topolino, poi la Citycar, poi i Suv Alfa.
L’impressione, purtroppo, è quella di un’azienda che, almeno nel Belpaese, viaggia ormai a fari spenti. Che ha scelto di scommettere tutte le sue carte solo sulla ruota americana di Detroit, e ha scelto di giocare la partita della concorrenza domestica solo sul piano dei tagli alla produzione e al costo del lavoro. Marchionne può dire quello che vuole. Ma tanti indizi, ormai, cominciano a fare una prova. La «strategia delle mani libere» non ha più nessun’altra giustificazione, se non quella del disimpegno. Dopo il divorzio da Confindustria, arriverà  anche il divorzio dall’Italia.

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