L’AUTUNNO CALDO DELLA DEMOCRAZIA

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La storia del pensiero politico è un lungo confronto con la violenza: con omicidi e brigantaggi, sommosse e guerre civili, usurpazioni e sopraffazioni, nemici esterni e criminali interni. Non solo: la politica deve fare i conti con la propria interna violenza. Infatti, la politica si struttura attraverso le differenze di potere fra persone e gruppi sociali. E la violenza sta all’origine del potere. Il potere è violenza che ha trovato una interna misura – esterna o interna –, una forma di consenso: è violenza controllata e legittimata, istituzionalizzata e finalizzata a obiettivi durevoli.
La violenza è una presenza immanente alla società  (la violenza dei Molti, che si propaga per imitazione e si estende a tutto il corpo sociale, portandolo alla crisi, secondo la tesi di Girard); è un pericolo che può essere sventato solo se la violenza viene fatta convergere sull’Uno (il Sovrano, che nell’età  moderna è la risposta hobbesiana alla violenza, ma che è anche il Capro espiatorio), che l’assorbe in sé, che vi si espone e al tempo stesso la monopolizza, e la somministra in dosi e in modalità  prevedibili e razionali. Il marxismo intendeva introdurre in questo meccanismo un’altra violenza: quella di una Parte (il proletariato) che salva il mondo dalla violenza, esercitandola secondo Giustizia (tesi particolarmente chiara in Benjamin).
È quindi inesatto, benché frequentissimo (lo fanno tanto i liberali quanto Hannah Arendt), contrapporre, in linea di principio, la politica, il potere, la legge, alla violenza. La contrapposizione, evidentemente, c’è, ma solo perché noi vogliamo che ci sia, e solo se operiamo perché ci sia. E vogliamo distinguere fra legge e violenza, fra potere legittimo e violenza, proprio perché sappiamo che la violenza è dentro la politica – nei Molti (nelle folle, nelle masse – come volevano Sighele e Canetti –), nell’Uno (nel potere costituito), nelle Parti (classi, gruppi, bande, camorre) –, e la vogliamo neutralizzare, o ritualizzare, o, al limite, bandire e eliminare. Vogliamo, insomma, contrapporre la politica della civiltà  alla politica della barbarie.
È questo l’obiettivo fondamentale dell’età  moderna; la violenza, infatti, strumentalizza chi ne è oggetto (lo piega, lo opprime, lo spezza), e nega così quel valore infinito della persona che la nostra civiltà  pone a proprio emblema. Ma perché questa finalità  umanistica non sia vuota declamazione, bisogna sapere individuare la violenza in tutte le forme che assume – alcune delle quali interne alla stessa civiltà  che la vorrebbe bandire –; c’è violenza tanto dall’alto quanto dal basso, tanto nei soprusi del potere quanto nelle rivoluzioni che li spazzano via, tanto nelle istituzioni deviate o corrotte quanto nella plebaglia incanaglita dal degrado culturale e civile, tanto nelle ingiustizie che attanagliano il mondo quanto nella criminalità  più o meno organizzata, tanto nella sottomissione delle donne al potere maschile quanto nelle disuguaglianze e nelle persecuzioni religiose o razziali, tanto nel terrorismo quanto nella guerra (giusta o ingiusta che sia). Bisogna, insomma, essere consapevoli del rischio che la coppia politica/violenza – che cerchiamo di separare – si torni a formare; e che la violenza si ripresenti dentro la civiltà  – come aggressione, dominio, minaccia –, e non lasci altra risorsa che opporsi a essa con altra violenza.
Solo se la politica democratica sa affrontare le ingiustizie, le sopraffazioni, gli abusi dei poteri, se cioè dà  spazio reale alla critica, alla protesta e alla proposta –, la violenza non ha giustificazione. Oggi più che mai è quindi la democrazia – presa sul serio – lo spartiacque fra la politica e la violenza, fra la civiltà  e la barbarie.


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