La roba pesante della modernità 

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 Divertente è un aggettivo che non si predica di solito per un vocabolario, non più che per un elenco telefonico. Eppure è proprio piacevole il Dizionario tecnico-ecologico delle merci di Giorgio Nebbia (Jaca Book, pp. 336, euro 25). Le sue 98 voci, che vanno da Acciaio a Zucchero passando tra gli altri per Bambù, Celluloide, Gabinetti, Luce, Nylon, Patata, Vento e Zolfo, si leggono come capitoli di una storia di cui il lettore vuole sapere come va a finire, poiché attraverso queste merci proprio la storia della nostra modernità  (e postmodernità ) è presa di sguiscio, attraversata di sbieco.

Intanto ti accattiva la curiosità  per i dettagli, come per esempio l’origine dell’espressione «matto come un cappellaio» che si ritrova in Toscana e in Inghilterra (il cappellaio matto è uno dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll): nell’800 sali di mercurio erano usati per tingere in nero le fibre proteiche come la lana dei feltri per la preparazione dei cappelli e gli stessi capelli umani, ma presto ci si accorse degli «effetti devastanti del mercurio sulla mente degli operai che lo maneggiavano in fabbrica». Anche l’espressione «spirito di patata» in voga nella prima metà  del ‘900 per indicare una battuta fiacca, che non fa ridere, deriva dalla bevanda alcoolica che si estrae dal fermentato di patata che è «simile all’acquavite ma di sapore più blando». Oppure, nella voce «Spinaci», apprendiamo non solo che Braccio di Ferro (PopEye) è il primo personaggio a fumetti cui è stata dedicata una statua, ma che questo personaggio è nato durante la grande depressione, in un’area del Texas in cui si coltivavano e s’inscatolavano spinaci, che proprio a questo fumetto l’industria conserviera attribuì l’aumento del 30 % del consumo di spinaci in scatola tra il 1931 e il 1936 e che infine il nome originale della partner di Braccio di Ferro, Olivia, era in realtà  Olive Oyl, anch’esso teso a pubblicizzare un genere alimentare, il nostro olio d’oliva.
Montagne di bambù
Ma al di là  delle curiosità  che pure lo rendono tanto gradevole, questo dizionario mantiene fisso il suo interesse su alcune direttrici costanti. La prima è restituire all’ignaro lettore l’immensa, inimmaginabile portata della produzione nel nostro mondo industriale: voce dopo voce, siamo martellati dai milioni, e miliardi di tonnellate delle singole merci: ogni anno si producono nel mondo 10 milioni di tonnellate di gomma naturale, 13 milioni di tonnellate di gomma sintetica. Di un materiale che ci appare tanto marginale quanto il bambù, se ne smerciano nel mondo ben 25 milioni di tonnellate all’anno, soprattutto per il suo uso nell’edilizia: è impressionante vedere in Cina le silhouettes di ipermoderni grattacieli in acciaio e vetro ergersi solo grazie alle esili, flessibili impalcature del bambù. Ma poi si passa ai 35milioni tonnellate l’anno di alluminio (estratti da 200 milioni tonnellate di bauxite), ai 400 milioni di tonnellate di carta, per arrivare ai pesi massimi come i 2 miliardi di tonnellate di cemento, i 4 miliardi di tonnellate di petrolio e i 6 miliardi di tonnellate di carbone.
Con queste cifre martellanti Giorgio Nebbia ci ricorda quanto sia fallace l’idea di una postmodernità  immateriale: l’immaterialità  della nostra società  si basa su un’incredibile materialità  di supporto. Niente lo dimostra meglio dell’acciaio, il simbolo stesso del Moderno («età  dell’acciaio») che ci appare ormai alle spalle, il termine da cui Iosif Vissarionovic Dzugasvili prese il suo pseudonimo Stalin: acciaio si dice in russo sta’l, in tedesco Stahl, in inglese steel. Nel corso del XX secolo l’acciaio è stato sempre più sostituito da altri materiali in un numero sempre maggiore di prodotti, per esempio le carrozzerie delle auto, o i motori delle motociclette (ormai in alluminio), eppure nel corso del ‘900 la produzione mondiale di acciaio è passata dai 30 milioni di t nel 1900 ai 140 milioni del 1940, ai 700 milioni del 1973 ai 1.400 milioni di oggi: ovvero la produzione si è moltiplicata 50 volte, mentre la popolazione mondiale si è quintuplicata: il consumo pro capite è decuplicato! Alla faccia del postmoderno
Nello stesso tempo, se è vero che il mondo nel suo insieme è un immane stabilimento industriale sempre più gigantesco, è anche vero però che i paesi industriali si deindustrializzano. Questo Dizionario è cosparso di fabbriche abbandonate come tutte le grandi acciaierie integrali italiane (tranne Taranto), di miniere chiuse come quelle di carbone in Belgio, o quelle di mercurio sul Monte Amiata che ancora negli anni ’60 producevano 1.200 t l’anno, e furono chiuse attorno al 1980.
La produzione di acido borico (dai soffioni boraciferi di Larderello) aveva fatto la ricchezza della Toscana, ma dopo la seconda guerra mondiale declinò e nel 1997 cessò del tutto. Oppure la canapa, di cui l’Italia ancora nel 1957 produceva 30.000 tonnellate e che ora è scomparsa dai nostri campi. O ancora le fabbriche di glutammato come la Insud-Ajinomoto costruita con i contributi della Cassa per il Mezzogiorno a Barletta, che funzionò più male che bene dal 1965 al 1977 e poi fu chiusa. Così è stato chiuso l’ultimo impianto che produceva acido solforico, quello di Scarlino in provincia di Grosseto, quando nell’800 lo zolfo era praticamente un monopolio siciliano sotto i Borboni. Persino impianti che hanno fatto la storia dell’industria moderna, come la raffineria La Palma di nitrato in Cile, che aveva dominato il mercato mondiale per tutto l’800, è stata definitivamente chiusa dopo la seconda guerra mondiale e, come epitaffio funebre, nel 2005 è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità .
Questo inesausto nascere e morire di impianti, fabbriche, cave, miniere, questo migrare da un continente all’altro si esprime anche nella transitorietà  delle merci che sembravano pilastri della civiltà  e poi invece svaniscono nell’oblio. Così è avvenuto alla Celluloide, che ha addiritttura designato un mondo, quello del cinema, e che oggi viene usata solo per produrre palline da pingpong per cui pare sia insostituibile.
Materie prime, semilavorati, merci finali sembrano dotati così di una loro vita, un loro nascere e morire. Per esempio i metalli sono da sempre presenti sulla terra, ma alcuni sono noti da millenni, come il rame, lo zinco, lo stagno, il ferro. Altri invece, presenti solo in composti difficilmente scindibili, sono noti solo da poco. Per esempio, l’alluminio, il metallo oggi più diffuso e più usato dopo l’acciaio, è noto solo dal 1827 e ottenerlo era così complicato che quando infine «arrivò sul mercato, costava più dell’oro».
Le merci non solo sono dotate di una propria vita, ma sono intrise della vita – e della morte, e dei dolori e dei patimenti – degli umani che le hanno prodotte. Come non ricordare il luogo su cui sorgeva la più grande fabbrica tedesca di gomma e benzina sintetiche durante la seconda guerra mondiale, e cioè Auschwitz? Il coltan è indispensabile per i nostri telefonini, ma ognuno di essi gronda del sangue della guerra civile in Congo. E lo stesso avviene per i diamanti. Per i nitrati Cile, Perù e Bolivia combatterono una guerra nell’800. A volte invece la storia s’insinua in un materiale in modo più subdolo. È il caso del butanolo, un carburante ottenibile dai vegetali, con più ottani rispetto all’alcol etilico. Il butantolo fu scoperto dal chimico ebreo russo Chaim Weizman (1874-1952) che era dovuto emigrare prima in Svizzera, poi in Germania e infine in Inghilterra. Weizman scroprì che un batterio trasforma gli zuccheri in butanolo e acetone. «Durante la prima guerra mondiale l’Inghilterra aveva bisogno, per la produzione dell’esplosivo cordite, di acetone che fino ad allora era stato importato dalla Germania. Weizman accettò di cedere al governo inglese il suo brevetto se avesse dichiarato – la dichiarazione Balfour del 2 novbembre 1917 – di “vedere con favore la costituzione in Palestina di una ‘sede nazionale’ per il popolo ebraico”». Weizman fu non solo un grande chimico, ma anche il primo presidente dello stato d’Israele dal 1949 al 1952.
Piombo letale
In altri casi la storia delle lotte dei popoli si affievolisce con l’estinguersi della merce che le aveva generate. Così, i fiammiferi sono una merce in via di estinzione, sostituiti dagli accendini. Nessuno ricorda le grandi lotte che scossero l’Italia di fine ‘800 per protestare contro la tassa sui fiammiferi, una tassa inasprita per far fronte alla guerra coloniale in Africa che si concluse con le sconfitte di Amba Alagi (1895), Macallè e Adua (1896) e con voragini nel bilancio dello stato.
Ma proprio i fiammiferi ci portano all’altro grande filo conduttore di questo Dizionario, quello ecologico, come si vede già  dal titolo. L’industria dei fiammiferi era fiorente nell’800, ma usava per il rivestimento delle capocchie fosforo bianco che era estremamente dannoso per gli operai che lo maneggiavano. Ma le pressioni dei fabbricanti ostacolarono per più di mezzo secolo qualunque misura che difendesse la salute degli operai. E anche dopo che l’Italia aveva firmato la convenzione di Berna (1906), grazie all’«emergenza nazionale» della prima guerra mondiale, i padroni dello zolfanello riuscirono a rimandarne l’applicazione al 1924 a prezzo di migliaia di malattie e morti premature degli operai. Sono tanti i casi in cui si ripete la storia di produttori che in nome del «progresso» o dell’«occupazione» difendono produzioni tossiche. Esemplare è quella del piombo tetraetile che serviva ad aumentare il numero di ottano nella benzina, e dei decenni che ci sono voluti per bloccarne la produzione e avere «benzina senza piombo». La storia della Società  lavorazioni organiche inorganiche (Sloi) è da manuale. Spostata a Ravenna nel 1940, già  nel ’45 aveva fatto almeno 8 morti tra gli operai e aveva inquinato i terreni circostanti. Nell’inondazione di Trento del 1966 la fabbrica fu allagata e provocò un’esplosione. Si moltiplicarono campagne stampa per gli operai ricoverati a ripetizione per avvelenamento. Ma quando nel 1971 il giudice chiuse la fabbrica, gli stessi operai protestarono per non perdere il posto di lavoro. Solo un’altra esplosione nel 1978 chiuse questo capitolo tossico.
Tutto il libro non fa che sottolineare la doppiezza della tecnologia, il suo doppio volto che produce benefici ma veicola pericoli e veleni. Così è per tutta la filiera del cloro, usato nello sbiancamento della carta e che portò ai gas asfissianti della prima guerra mondiale, al Ddt, il potente insetticida messo fuori legge; ai defolianti usati dagli Stati uniti nella guerra del Vietnam, agli erbicidi, ai clorofluorocarburi usati nei frigoriferi e considerati in parte responsabili del buco dell’ozono, al cloruro di vinile, una materia plastica rivelatasi cancerogena, e alla diossina prodotta dal suo incenerimento.
L’ozono è un altro esempio dell’ambivalenza ambientale di un materiale. Alla sua diminuzione negli strati alti dell’atmosfera è attribuita la responsabilità  dell’aumento di radiazioni ultraviolette che giungono al livello del mare e quindi dell’aumento dei tumori cutanei e delle malattie degli occhi. Ma nello stesso tempo la combustione degli autoveicoli produce un eccesso di ozono nella «troposfera», al livello del suolo, che a sua volta provoca disturbi respiratori e irritazioni e facilita la formazione di altri agenti inquinanti e tossici.
Ingegno generale
Perciò grande attenzione dedica questo Dizionario alle tecnologie alternative che potrebbero attutire l’impatto ambientale, generare posti di lavoro «verdi». Mettendoci però in guardia da innovazioni che poi si sono rivelate miti: «Ogni tanto ritorna in circolazione la speranza della scoperta di una plastica biodegradabile, adatta, soprattutto, per i sacchetti della spesa, gli shopper, il cui consumo ammonta a miliardi di unità  all’anno, a centinaia di migliaia di tonnellate all’anno», speranza che si è sempre rivelata vana perché proprio biodegradabili quei sacchetti non erano. Nebbia ci insegna che riciclare è un’arte difficile, che andrebbe appresa e insegnata (per esempio vetro bianco e vetro colorato non possono essere riciclati insieme). E poi fa curioso venire a sapere che dopo la seconda guerra mondiale il governo italiano aveva creato un ente pubblico, l’Azienda Rilievo Alienazione Residuati, l’Arar, per riciclare i residuati bellici che l’esercito americano si era lasciato dietro.
Insomma questo dizionario è uno straordinario ritratto del nostro mondo e della nostra società . Intanto ci ricorda della centrale importanza di una scienza, la chimica, spesso e a torto considerata ancella delle altre discipline. Poi ci sciorina davanti agli occhi l’incredibile, multiforme, capillare ingegnosità  di tanti umani che hanno creato procedimenti, scoperto metodi, inventato prodotti, vero proprio general intellect che ha provocato la radicale rivoluzione tecnologica e sociale di cui ormai non ci rendiamo più conto. General intellect che è fatto non solo di intelligenza, estro, fantasia, tenacia, ma anche di furbizia, scaltrezza, capacità  di raggirare in una versione imprenditoriale di «Ulisse dal multiforme ingegno». Di questa opinabile ma stupefacente scaltrezza Nebbia ci dà  un’ampia illustrazione nel capitolo sulle Frodi, tra cui personalmente mi ha colpito una sull’olio d’oliva che richiese davvero tanta immaginazione, quando si scoprì che l’olio di semi di tè è l’unico olio vegetale che presenta caratteristiche uguali a quelle dell’olio di oliva. «Fu così organizzato un ‘commercio triangolare’: veniva acquistato a basso prezzo olio di tè dalla Cina, questo arrivava in qualche porto dell’Africa settentrionale dove, senza nessuno spostamento, con un abile cambiamento dei documenti di trasporto, veniva fatto figurare che la nave aveva scaricato olio di tè e imbarcato olio di oliva. L’olio di tè entrava così in Italia come regolare olio di oliva». Come avrebbe detto il nipote di Rameau: «Questo è genio!»


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