by Sergio Segio | 2 Ottobre 2011 7:05
MILANO – Il segno che il vaso non solo è colmo ma sta proprio traboccando è che adesso sono usciti dal silenzio e parlano in chiaro. Nome e cognome. E ne hanno per tutti. Per i capi del partito, che «salvano i terroni indagati per mafia», e per Napolitano, tornato a essere «Napoletano» perché li considera un «popolo inesistente».
Schiuma rabbia la base leghista. Non bastavano le capriole e gli appiattimenti berlusconiani di Bossi e della Trojka leghista (leggi: i paracadute offerti a Papa, Milanese e Romano). Non bastavano le faide interne tra «maroniani» e «cerchisti»: ieri lo scontro è emerso in superficie, con Maroni che chiede la riforma della legge elettorale nel senso proposto dai referendum e Reguzzoni che, a stretto giro, gli risponde che «discutere di legge elettorale oggi significa abbandonare l’idea di realizzare le riforme e favorire l’avvento di un governo tecnico». Faide che culminano nella resa dei conti finale dei congressi di Brescia, oggi, e soprattutto Varese. No, a «far rivoltare le budella» – copyright Stefano Candiani, segretario provinciale di Varese – ci si mette, di nuovo, anche il Capo dello Stato. Lo stop arrivato dal Quirinale fa da detonatore. Dice l’assessore regionale lombardo Daniele Belotti: «È vero che Napolitano esultò per i carrarmati a Praga, ma mi chiedo: se ci fosse un regolare referendum in cui la maggioranza dei padani votasse per l’autodeterminazione, che cosa farebbe, manderebbe i carrarmati anche qui?».
Il diritto all’indipendenza rivendicato da Calderoli alza la diga e fa sfociare tutto il malcontento che fermenta in un partito mai così agitato e diviso. L’elettorato è in rivolta, gli amministratori esasperati, il «territorio» sempre più scollato dai «leghisti di Roma». Sui siti e i media padani è tutto un fiorire di critiche nemmeno troppo garbate. Nessuno risparmiato: nemmeno Bossi. Che non è più l’intoccabile di quando la Lega faceva ancora la Lega e i suoi sindaci e i suoi «soldati» se ne stavano zitti e allineati. E a nessuno sarebbe venuto in mente di fare l’outing di Giancarlo Porta, il sindaco-tradito di Macherio che ha inchiodato il Carroccio alle sue debolezze: «Forse Bossi è consigliato più per logiche di potere che per l’interesse della Padania». Il Senatur è dipinto come un leader ammaccato e confuso che si fa influenzare da cortigiani affamati di «poltrone imbottite da doppie tripli stipendi». Colpa dei «rospi», dei «bocconi amari» «duri da mandar giù». «È da quando siamo al governo con Berlusconi che ne ingoiamo e continuiamo a farlo – ancora Belotti – La fiducia a Romano è il più grosso e indigesto di tutti».
Da Bergamo a Varese, da Milano a Cremona, da Verona a Treviso: la pancia del Carroccio è sottosopra. Da una parte le scelte spiazzanti dei vertici, dall’altra Napolitano. «Lo Stato-nazione è in crisi, compie 150 anni, è vecchio e va cambiato – taglia corto il senatore Giuseppe Leoni – Bisogna cambiarlo con un modello Stato federale, sul modello svizzero». «La Padania esiste e io mi sento orgogliosamente padano», è la replica antiquirinalista di Andrea Gibelli, vicepresidente della Lombardia «stanco di pagare per un Sud improduttivo». Va giù pesante anche Paolo Grimoldi, presidente dei Giovani padani: «Napolitano non si è mai accorto del dramma delle foibe ma ricorda, facendo una gaffe, l’indipendentista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile».
Per capire l’aria che tira basta sintonizzarsi sulla diretta di Radio Padania. «È da sovversivi negare l’autodeterminazione dei popoli», tuona Pietro. «Esistiamo e nessuno ci può arrestare», sbotta Enzo. La pagina Facebook della radio è aperta da un appello: «Volete dire al capo dello Stato che esistiamo?».
Ma l’effetto Napolitano è solo un intermezzo alle critiche della base contro i big del partito. I rimproveri per il salvataggio di un «ministro meridionale indagato per mafia». «Rospi? No, direi che abbiamo ingoiato elefanti», nota Silvana Saita, sindaco di Seriate. Sotto i tendoni delle feste e sui siti dei Giovani padani si grida allo «scandalo». Contro i big «verdi» è esplosa una rabbia che in altri tempi sarebbe apparsa eretica. «Le monetine sono pronte anche per voi». «La Lega è morta». «Salvate il soldato Romano e addio voto padano». Mani anonime che picchiettano sulla tastiera. Poi ci sono dirigenti e amministratori che ci mettono la faccia e stigmatizzano la «tenaglia di Berlusconi». Matteo Salvini: «Non penso che avanti in questa maniera si vada oltre qualche mese. Non so chi si debba dimettere ma noi di pazienza ne abbiamo avuta sin troppa». Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: «Accadono cose strane. La legalità è nei cromosomi della Lega, ci fossero stati casi Milanese e Romano cinque anni fa l’esito sarebbe stato diverso».
Tra quindici giorni al congresso di Varese si giocherà una partita decisiva per gli equilibri interni. Maroniani da una parte e Cerchio magico dall’altra. La prova di forza sarà quella. Uscirà una sola fazione vincitrice: o quella Maroni-Giorgetti o quella Reguzzoni-Trota-Manuela Marrone-Rosy Mauro. «Da lì in poi tutto potrà succedere. Anche a Roma». Così vanno le cose in Padania, regione immaginaria di beghe, potere e nostalgia di un passato che sembra sepolto.
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