by Sergio Segio | 9 Ottobre 2011 7:06
Secondo me non era un incitamento retorico alla coesione nazionale, che sta giustamente a cuore a chi rappresenta l’unità del Paese, ma conteneva un concetto assai più profondo.
Bontà e cattiveria, egoismo e altruismo, interessi particolari e solidarietà sociale non descrivono una società antropologicamente spaccata in due. Sono piuttosto due vocazioni naturali, due istinti che albergano in ciascuno di noi. In ogni individuo e in tutti i luoghi della Terra quei due sentimenti sono presenti e la storia delle persone, delle comunità , delle nazioni altro non è che il confronto dialettico tra quelle due forze che si contrastano.
Talvolta prevale l’una, altre volte l’altra senza tuttavia che la forza soccombente sia eliminata. Se questo avvenisse l’antropologia della specie risulterebbe radicalmente trasformata: l’umanità della nostra natura diventerebbe in un caso una natura bestiale, nell’altro una natura angelica. L’uomo non è né una bestia selvaggia né un’essenza angelicata.
Queste riflessioni sulla natura della nostra specie non hanno soltanto un valore antropologico, contengono anche un insegnamento politico e una speranza per quanti confidano e lottano per un mondo migliore.
Le divisioni restano, il confronto tra le due vocazioni continua, come continua la contrapposizione tra i diversi modi di concepire il bene comune, ma il valore politico di quell’esortazione è di non disperare del futuro e di non abbandonarsi all’indifferenza e all’apatia.
Credo che questo volesse trasmetterci Giorgio Napolitano e so che questo è stato anche il significato dell’incontro che si è svolto ieri a Milano per iniziativa dell’associazione “Libertà &Giustizia”. È risultato chiarissimo dalle parole rivolte a molte migliaia di cittadini da Giuliano Pisapia, Roberto Saviano e Gustavo Zagrebelsky: «Non chiediamo niente per noi, ma chiediamo molto per tutti».
Il vento nuovo che spira con sempre maggior lena in tutto il Paese muove in questa direzione, non spinge verso una o l’altra delle parti politiche in accesa competizione tra loro, ma spinge verso il futuro, verso una nuova modernità che congiunge insieme sobrietà , efficienza, sviluppo, solidarietà . Il logo dei promotori li rappresenta con due valori che dal Settecento ad oggi sono stati il punto di riferimento di quanti hanno combattuto per la democrazia: Libertà e Giustizia. Rendiamo onore a quanti, in anni torpidi e tristi, hanno resistito alimentando la speranza anche quando sembrava ridotta alla luce incerta d’una lucciola nelle tenebre. Ora sta tornando a rifulgere in mezzo alle procelle della crisi che continua a infuriare.
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L’epicentro della crisi è il pericolo incombente della recessione. Nel mondo e in Italia. Gli economisti registrano la recessione analizzando l’andamento della domanda; la domanda crolla a causa della caduta dei redditi; i redditi e quindi il potere d’acquisto diminuiscono per mancanza di lavoro il quale a sua volta cede per la scarsità di domanda. Così il cane si morde la coda, l’effetto diventa a sua volta causa, l’economia reale si avvita e il circolo perverso della stagnazione e poi della recessione si autoalimenta.
Per interromperlo deve entrare in gioco un elemento nuovo, capace di bloccare il ciclo perverso e di cambiare il “trend” e le aspettative dei mercati. Bisogna dunque chiedersi quale sia l’elemento nuovo capace di capovolgere le aspettative. Su questa ricerca si sta discutendo da anni e la discussione negli ultimi mesi è diventata sempre più convulsa. Ora siamo alla stretta finale e, come sempre avviene nei gran finali, il problema è ridiventato politico.
Tutti gli attori che partecipano a questa immane partita mondiale hanno assunto rilievo politico: sono politici per definizione i governi, ma anche le Banche centrali hanno assunto quel ruolo; fa politica il governatore della Federal Reserve americano non meno di Obama; fanno politica Trichet e il suo imminente successore Mario Draghi; fanno politica gli imprenditori e le loro organizzazioni; fanno politica i sindacati; fanno politica i “media”; fa politica la gente che va in piazza. e Fa politica – eccome se la fa – chi propugna l’antipolitica.
La politicizzazione della crisi economica è un fatto naturale: si sta infatti discutendo e decidendo di quale sarà il nostro futuro prossimo che porrà le basi per quello dei figli e dei nipoti. E non si può deciderlo che con la partecipazione responsabile della coscienza collettiva. Oppure con il dominio del dispotismo. Una terza alternativa in questi casi non esiste. Ecco perché l’antipolitica non è una risorsa ma un pericolo.
L’antipolitica può essere generata dalla mediocrità della politica presente, ma deve poi approdare ad una concezione positiva del bene comune altrimenti si incanaglisce nel rifiuto di tutto, esprime l’impulso anarcoide latente in ogni società democraticamente immatura. Il terrorismo degli anni Settanta nacque dall’antipolitica del “vogliamo tutto e lo vogliamo subito” e colpì a morte gli esponenti migliori della democrazia riformatrice, giudici, avvocati, giornalisti, politici, operai, servitori dello Stato.
Ma, senza arrivare a queste forme perverse e fanatizzate, guardate al “Tea Party” americano: non è un movimento di destra repubblicana ma una fanatizzata antipolitica che ha puntato perfino sul “default” dello Stato federale ed ora esalta l’isolazionismo e il razzismo “yankee”.
L’antipolitica è anche l’inevitabile sbocco della disperazione che finisce però, altrettanto inevitabilmente, nell’indifferenza, nella difesa del proprio “particulare” e nella delega in bianco al dispotismo.
L’antipolitica fu l’incubatrice del fascismo. Ed è la natura profonda del “Forza Gnocca” berlusconiano che non è una battuta ma un appello ai peggiori istinti che, appunto, albergano in ciascuno di noi.
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Per scongiurare questi incombenti pericoli bisogna dunque curare la disperazione.
Ce ne sono tante e di varia specie nell’Italia di oggi, ma due sono quelle che fanno massa critica: il futuro dei giovani, la miseria del Mezzogiorno. Ne hanno parlato in questi giorni con accenti preoccupati ed anche accorati Napolitano e Draghi. Ne ha parlato la Chiesa con i suoi maggiori esponenti, dal Papa al cardinal Bagnasco, al nuovo arcivescovo di Milano Angelo Scola. Ne parlano le opposizioni, dal Pd a Vendola, da Casini alla Camusso. Fa senso constatare che quelle due emergenze – Mezzogiorno e giovani – non siano state neppure nominate e prese in seria considerazione nelle quattro o cinque manovre economiche uscite dalle raffazzonate improvvisazioni del governo e della sua maggioranza.
Eppure quelle due disperazioni potrebbero essere due occasioni storiche per lo sviluppo dell’economia italiana, gli elementi di rilancio per farci uscire dallo stagno e impedire che si trasformi in recessione.
La sfiducia dei mercati verso i debiti sovrani è stata per ora attenuata da una saggia decisione della Bce, sorretta (finalmente) dal consenso indispensabile della Germania: garantisce alle banche europee un accesso illimitato al finanziamento della Banca centrale, con tassi favorevoli e la durata d’un anno.
La minaccia sulle banche è stata il punto sensibile della speculazione; la Bce ha spezzato la punta di quella lancia ed ha tranquillizzato i mercati. Ma questa strategia finanziaria cura i sintomi, è una sorta di cortisone, non rimuove le cause.
Le cause si rimuovono investendo sulla domanda di lavoro, cioè sugli investimenti, sugli sgravi fiscali che rilanciano i consumi, sulla rete d’un “welfare” moderno che copra i precari e i disoccupati.
Una riforma delle pensioni che porti subito tutte le pensioni d’anzianità al sistema contributivo è auspicabile anche dalla sinistra responsabile e dai sindacati, ma ad una condizione: non serva a fare cassa bensì ad essere investita nel “welfare” a favore d’un patto generazionale tra padri e figli.
Questo è vero riformismo. Le aziende debbono riguadagnare competitività e produttività , ma lo Stato e la collettività debbono darsi carico di quanti subiscono i contraccolpi della globalizzazione e della concorrenza che essa ha scatenato su tutti i mercati.
Discorsi analoghi valgono per il Sud. La depressione economica di quelle regioni è lo scarto che non solo consente ma impone il rilancio degli investimenti. Le risorse ci sono: lotta all’evasione come la fece Vincenzo Visco e prelievo patrimoniale ordinario con basse aliquote e vasta platea.
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Poche parole sull’interessante ricordo che Napolitano ha fatto qualche giorno fa di Giuseppe Pella, iniziando da Biella il suo viaggio piemontese.
Pella è nato e sepolto a Biella. Fu ministro delle Finanze quando Luigi Einaudi era ministro del Bilancio; poi fu nominato presidente del Consiglio a Ferragosto del 1953 e durò in carica cinque mesi. Dopodiché di Pella non si parlò più.
È giusto che, visitando varie città storiche del Piemonte, il Presidente rievochi la memoria dei loro più illustri cittadini. Biella è stata storicamente importante perché lì nacque, ad opera di un paio di geniali imprenditori, l’industria tessile dell’Italia moderna, ma a Biella è anche nato Quintino Sella che fu uno dei maggiori protagonisti della politica finanziaria durante il quasi ventennale periodo di governo della Destra storica, dal 1861 al ’76.
Napolitano ha scelto di ricordare Pella dedicando agli imprenditori tessili e a Quintino Sella (più che mai attuale nelle vicende di questi mesi) brevi parole di circostanza. Perché questa scelta?
Ieri, parlando a Dogliani e ricordando Luigi Einaudi che lì nacque, il Presidente ha negato che vi fosse alcuna sua intenzione politica nel suo ricordo di Pella. È opportuno che l’abbia detto, ma il fatto obiettivo rimane.
Nell’estate del 1953 ci furono elezioni politiche molto agitate; la Dc e i partiti laici suoi alleati avevano varato una nuova legge elettorale che consentiva l’apparentamento di liste varie e un premio di maggioranza alla coalizione vincente. Doveva raggiungere la soglia del 50 più 1 dei voti e avrebbe ricevuto un premio per governare con piena tranquillità . L’opposizione la chiamò “legge truffa”, certamente esagerando. Ci furono proteste violentissime, nacque una lista guidata da Calamandrei, un’altra di liberali intransigenti guidata da Corbino. La conclusione fu la sconfitta della Dc e dei suoi alleati che non raggiunsero la soglia prevista.
De Gasperi decise di ritirarsi dalla politica. Nella Dc stava emergendo Fanfani ma incontrava molte resistenze; la crisi si presentava insomma assai accidentata.
Vigeva fin da allora la prassi delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari; poi un incarico esplorativo, poi l’incarico formale, poi consultazioni dell’incaricato con i partiti di governo e le correnti per l’assegnazione dei ministeri. Infine la presentazione del nuovo governo al Parlamento. Così andarono le cose durante i quarant’anni della Prima Repubblica. Ma la lettera della Costituzione è molto più breve, dice soltanto: «Il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e – su sua proposta – i ministri».
Einaudi, nonostante la prassi, fece esattamente così. Sentì i presidenti delle Camere, poi andò nella villa di Caprarola e convocò Pella informandolo che aveva già scritto e firmato il decreto che lo nominava presidente del Consiglio. Voleva un governo di “decantazione” che preparasse una nuova legge elettorale.
Questo è tutto. Dal che risulta che la lettera della Costituzione consente al Capo dello Stato di saltare ogni prassi restando saldamente nei limiti che la Costituzione prevede. Napolitano esclude che la sua “citazione” contenga una qualunque intenzione. Ho già detto che ha fatto bene ad escluderla ma resta che il precedente einaudiano conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, la correttezza procedurale di attenersi interamente e soltanto al dettato letterale della Costituzione. In questo caso ci ha rimesso Quintino Sella, ma noi siamo contenti che, al bisogno, quel comportamento rientri nel novero d’una correttissima procedura e delle prerogative che la Costituzione assicura al Presidente della Repubblica.
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