LA PIAZZA E I NEROVESTITI

by Sergio Segio | 17 Ottobre 2011 6:56

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La Bce sta all’economia italiana come la Procura di Milano stette alla politica. Piuttosto sbrigativamente, il “movimento” ha fatto di un’estrema ipotesi – l’uscita dall’euro e la disdetta del debito – addirittura uno slogan. Rivendicando di fatto la restituzione della politica confiscata dalla finanza agli Stati e ai governi nazionali: prospettiva tristissima. Magari la “confisca” delle scelte nazionali avvenisse ad opera di un governo federale europeo. Il quale, nonostante i passi indietro e le frustrazioni per la supplenza della Bce, deve restare l’obiettivo di un’alternativa alla crisi e allo scioglilingua della crescita. È un peccato – come direbbe Draghi – che nelle sinistre ereditarie e in nuovi lanciatori di sassi torni ogni volta il riflesso condizionato delle sovranità  statali: che si tratti del diritto internazionale o della invadenza finanziaria.
2. La plastica citazione dell’estintore, il crocifisso decapitato: mancava solo l’assalto a una chiesa copta. Ogni volta che una grande manifestazione viene sequestrata da riti compiaciuti di violenza, mi devo ricordare d’esser stato lanciatore di sassi. È solo un caso di vecchiaia, o è cambiato anche qualcos’altro? Mi pare di sì. Intanto, l’attenzione alla nonviolenza, o almeno l’appannamento del fascino della violenza, qui e nel mondo. Si sono prese distanze, a volte maramaldesche, spesso rispettose e sofferte, da intere tradizioni combattenti: hanno giocato fortemente il femminismo e la scoperta dell’agonia del pianeta. Che la ribellione che scuote i paesi arabi, a un costo spaventoso, abbia preso la strada della nonviolenza, è una meraviglia imprevista, qualunque infamia prenda il ritorno all’ordine. Anche la ribellione negli Stati Uniti, che emula quella degli anni ’60, ma con un presidente nero e senza un Vietnam da cui disertare. Da noi, c’è un pensiero che a chiunque della vecchia generazione gira per la testa, sia che lo esorcizzi sia che ci rimugini: che se il contesto internazionale, la politica e le forze di polizia fossero quelle degli anni’70 – cominciati in realtà  con una strage di Stato nel 1969 e finiti molto più tardi – una consunzione di governo come quella dell’Italia di oggi avrebbe già  sperimentato sangue e colpi di mano. Che questo non sia successo – non ancora, per scongiuro – dipende da tanti fattori, ma anche da un cambiamento nelle forze dell’ordine. Le quali diedero una complessiva orribile prova di sé, e della loro guida politica, dieci anni fa a Genova; e loro gruppi e membri, in circostanze più quotidiane, si rendono responsabili di crimini e soperchierie. Si riparlava ieri della morte in caserma del giovane Giuseppe Uva, per la tenacia di una sorella, come per Stefano Cucchi. Tuttavia la polizia, le polizie, sono diverse. E sono diversi i giovani che si trovano di fronte. È più difficile descrivere gli uni come figli di papà  col capriccio della violenza e gli altri come figli del popolo votati all’obbedienza cieca. Però, temo – parliamo di cose mal conosciute, perché la società  si è fatta opaca e straniera a se stessa – a questi cambiamenti non ha corrisposto un cambiamento adeguato di mentalità  e sentimenti. I “guastatori nerovestiti” (così li chiamava ieri il Manifesto, oscillando fra questa definizione e altre più cattivanti) sembrano persone che hanno deciso che impiego fare del proprio tempo e delle proprie mani, puntuali agli appuntamenti altrui. Non sono affare di dialogo, non nel breve periodo, comunque: andranno a finire da qualche parte, e speriamo che non sia la parte peggiore. Tutt’al più, conviene riconoscere che non sono così pochi come ci piacerebbe. E che centinaia di giovani attrezzati, e figuriamoci migliaia, sono in grado di far deragliare qualunque corteo pacifico, e tanto più quanto più grande è la partecipazione a quel corteo, come a Roma. La questione vera è nella moltitudine di ragazze e ragazzi giovanissimi, delle scuole più che dell’università , che la sismologia della crisi spinge nelle strade e che sono soli, devono inventarsi o prendere in prestito idee drastiche – che non eccedano la lunghezza di uno striscione – e imparano che almeno un punto fermo c’è: lo scontro con la polizia, ineluttabile e nobile, un’iniziazione. Può servire uno stadio o la piazza, magari passando con la stessa divisa dagli stadi alle piazze. Questo è un punto cruciale. Lo scorso 14 dicembre romano, gli scontri furono intensi e rabbiosi come uno sfogo, e furono essenzialmente l’azione spontanea di questi ragazzi. Sbaglia chi assimila le due giornate. Al contrario, il 15 ottobre ha esposto molti di quei ragazzi all’arruolamento dei sottufficiali di carriera nerovestiti, perché bisogna avere argomenti forti per dissociarsi quando la bagarre si scatena, e le cariche non distinguono: e soprattutto un argomento fortissimo, che battersi contro la polizia non è un dovere morale, né una prova di sé.
3. Corollario inevitabile. Le manifestazioni hanno bisogno di tutelarsi, e dunque di avere un servizio d’ordine. Ma i servizi d’ordine non sono la soluzione, solo un suo ingrediente. I servizi d’ordine che si illudano di essere autosufficienti diventano incubatori di violenza concorrente con quella che vogliono sventare. Non c’è niente di peggio di una polizia parallela. Le manifestazioni non possono tutelarsi da disastri simili che con l’accordo fra manifestanti e polizia. Questo avviene, più o meno ipocritamente, ed è avvenuto anche alla vigilia di sabato, ma non abbastanza e non bene, evidentemente. Non me ne intendo, ma concordare lo svolgimento di manifestazioni che si vogliono libere e nonviolente senza ipocrisia vuol dire assegnare agli uni e agli altri la responsabilità  che spetta loro. E ostacolare l’impiego strumentale della polizia per convenienze come l’allarme suscitato dalla violenza e le accuse mosse agli avversari politici. Anche la polizia non può risolvere da sola una violenza come quella di sabato (quando pure non sia lei a provocarla): tanto più se miri a non farci scappare il morto. E il morto, sabato, sarebbe stato un carabiniere, se non fosse scappato.
4. Ultimo punto. Ormai il rapporto fra politica di professione e “movimento”, cioè movimenti, è diventato un capitolo della separazione fra garantiti e precari: quelli che di politica vivono, e stentano sempre più (ammesso che ci provino) a “infiltrarsi”, come dovrebbero, nei movimenti; e quelli che non hanno di che vivere o poco, e ne nutrono la propria politica. Topi di città  e di campagna, che non si incontrano. I secondi pensano di ricominciare da zero. I primi pensano per lo più che i movimenti passano, gli assessori restano. Possono avere brutte sorprese.

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