La pace è donna il Nobel a tre africane

by Sergio Segio | 8 Ottobre 2011 6:42

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Era una porcheria che passava per lo più inosservata, e lo fa ancora. L’idea che associava l’Africa a giovinezza e femminilità  (comprese le espressioni più o meno inavvertitamente coloniali, “il continente vergine”) ha resistito, direi, ma va prendendo un ben altro senso. Così ieri il premio Nobel per la pace è andato a tre donne africane. Solo quindici giorni fa era morta a Nairobi Wangari Maathai, Nobel per la pace 2004, biologa e fondatrice del Green Belt Movement, impegnata soprattutto nella lotta contro la deforestazione. È come se donne, e africane, si passassero il testimone.
Tre donne africane: ce n’è abbastanza per sentire aria di correttezza politica. Vorrei appunto scrivere un elogio del comitato norvegese (cui è riservato il Nobel per la pace) e della correttezza politica. La quale è stucchevole, quando esagera. Succede.

Ma succede più spesso il contrario. Guardate la coincidenza fra il premio e la trovata su “Forza gnocca” – lo so, voleva essere una battuta di spirito, il che peggiora le cose. L’anno scorso il premio fu assegnato a Liu Xiaobo, militante di Tiananmen 1989, dissidente e detenuto, con una condanna a undici anni per sovversione intellettuale. Ci fu una sedia vuota, a Oslo, e Liu è ancora in cella, e sua moglie agli arresti. Fu iper-correttezza politica, anche quella? Ma la Norvegia, coi suoi neanche cinque milioni di abitanti, diventò ipso facto la bestia nera della Cina, che si adoperò a sollevarle contro il boicottaggio dei paesi a lei infeudati, inventò il suo premio Confucio (forse già  affondato, proprio ora che aveva un candidato smagliante come Putin), e ancora, come ha appena riferito qui Giampaolo Visetti, si premura di tenere al bando il salmone norvegese.
Viva la correttezza politica, dunque, quando non è una maniera. Anche Ellen Johnson-Sirleaf, presidente della Liberia e prima presidente donna in Africa, ha conosciuto condanna, prigione – per due volte – ed esilio. Ha quattro figli e sei nipoti. La sua connazionale Leymah Gbowee ha 39 anni e sei figli, è avvocato e militante dei diritti civili, si è battuta contro le violenze alle donne e per il riscatto dei bambini soldati. In lei soprattutto, è evidente come delle donne abbiano segnato peculiarmente la lotta contro un’atroce guerra civile, per l’unità  fra etnie e religioni diverse (lei è cristiana protestante) e la scelta della nonviolenza. Come recita il titolo della sua autobiografia, “la sorellanza, la preghiera e il sesso hanno cambiato una nazione in guerra”. Nel 2002 Gbowee sollevò l’attenzione internazionale promuovendo, con le sue “donne in bianco”, uno sciopero del sesso – come nella Lisistrata di Aristofane – finché fosse durata la “seconda” guerra civile (1999-2003), costata, a quel paese di nemmeno quattro milioni di abitanti, più di 200mila vittime. Si fece appello a tutte le mogli, comprese quelle del dittatore e dei suoi cortigiani, e alle prostitute, per le quali lo sciopero aveva un costo peculiare. Fu soprattutto una campagna simbolica, ma ebbe un’efficacia nella rivendicazione di negoziati di pace. Ci furono, soprattutto in Occidente, obiezioni: lo sciopero delle mogli era un modo di confermare la divisione dei ruoli fra gli uomini, incaricati del potere e della guerra, e le donne, titolari della camera da letto; e rischiava di far passare il sesso come un piacere esclusivamente maschile. La risposta delle attiviste liberiane fu che gli uomini hanno una fissazione peculiare per il sesso e per la guerra, e le donne sono più inclini alla pace e alla maternità : difficile da negare, nemmeno qui e oggi.
La yemenita Tawakul Karman, giornalista, vicina ai Fratelli musulmani, ha tre figli. Ha anche lei conosciuto la galera nel corso della ribellione popolare della Piazza del Cambiamento di Sanaa. La ribellione ha ricevuto un’attenzione minore rispetto ad altre della primavera araba, che già  volge all’autunno, per l’immagine di confusione “tribale” associata al suo paese. Si è osservato che ha la stessa età , 32 anni, della dittatura di Saleh, dettaglio illuminante che vale per l’insieme di quelle intrepide ribellioni: poteri divenuti lunghissimi e dinastici, e giovani che appartengono a un altro mondo, e lo rivendicano. Il 44 per cento della popolazione liberiana e il 43 per cento della yemenita hanno meno di 14 anni!
Che la decisione norvegese risponda a un’intenzione politica è indubbio. Si sono scelte l’Africa, le donne, la primavera araba, il credito accordato a un Islam nonviolento e rispettoso ruolo femminile. Le critiche possono moltiplicarsi a piacere. In Liberia c’è una campagna presidenziale agli sgoccioli, e Sirleaf è in lizza per la rielezione. Le si addebita inoltre un passato prominente in istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. Argomento dubbio, se non altro perché è dubbio che il mondo trovi una via di scampo, o almeno riduca i danni, senza che qualunque militanza civile e dal basso si proponga di arginare la prepotenza delle istituzioni internazionali e condizionarne la potenza. Quanto alla primavera araba, il comitato ha scommesso sul suo futuro, e ha puntato sulla ruota più azzardata, la piazza insanguinata di Sanaa. Tutto considerato, sono state premiate tre donne, e africane. Donne africane sono diventate protagoniste della lotta universale contro le mutilazioni genitali. Si può congratularsi con la correttezza politica. «Sono contenta per mille motivi, ed essenzialmente tre», ha detto Emma Bonino. Non è poco.

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