La morte del tiranno

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Messo alla prova del momento fatale, di fronte all’assunzione fin in fondo della responsabilità  delle sue azioni, ha tentennato davanti ai suoi predatori e come la stragrande maggioranza degli esseri umani nella sua condizione ha finito per soccombere in modo piuttosto inglorioso (oltre che orribile). La mescolanza di spavalderia e di scaltrezza sulla quale ha costruito la sua fortuna gli ha impedito di uscire di scena in modo dignitoso e pacifico, risparmiando a se stesso, alla sua famiglia e ai suoi connazionali un’avventura dolorosissima. Non era folle e non era saggio: era un tiranno. Una delle ragioni psicologiche più importanti del successo dei tiranni è la loro abilità  (favorita dalle circostanze) di imporre agli altri il loro senso di realtà . Temuti e odiati sono, al tempo stesso, ammirati e rispettati come padri tanto rassicuranti quanto autoritari e arbitrari nelle loro scelte e nel loro giudizio. Feroci o “illuminati” che siano fanno della repressione il correlato funzionale della regressione psicologica collettiva che rende possibile il loro avvento (certificando a volte il brusco cedimento di un processo rivoluzionario). Tuttavia appena la loro presa sui loro sudditi tramonta la loro incapacità¡ di interpretare la realtà  in modo non autoreferenziale diventa evidente e li trascina nella catastrofe. La loro fine (politica o fisica) è in primo luogo un parricidio metaforico: un rito di iniziazione che istituisce una società  di pari (fratelli) e consente di introiettare il potere arbitrario (carismatico) del padre trasformandolo in autorità  democraticamente gestita e condivisa. A volte le circostanze rendono l’eliminazione materiale del padre padrone inevitabile. Ma questa può assumere il significato liberatorio del tirannicidio solo se segna un punto di non ritorno, un necessario taglio netto con un regime dittatoriale che prelude alla costruzione di una società  più libera. Se invece i sentimenti della comunità¡ insorta restano impigliati nel rigetto puro, nel solo odio, fatto fuori un tiranno ne prendono il posto altri. Solo il tempo ci dirà  se l’insurrezione libica è una rivoluzione democratica, se l’omicidio brutale di Gheddafi è un tirannicidio o un parricidio irrisolto che elimina un padre terribile senza sostituirlo con un’autorità  collettiva credibile. La spiegazione ufficiale della sua morte, che chiama in causa una pallottola vagante, non è un segno incoraggiante ma forse è stata inventata per far fronte all’ipocrisia occidentale che sostituisce con il suo sadismo voyeristico la violenza omicida di altri. Per il momento l’unica cosa che si può dire con certezza è che a Gheddafi è stato negato il processo come luogo e tempo in cui ricomporsi emotivamente, il diritto di essere psichicamente vivo di fronte alla condanna. Saddam Hussein ha avuto più fortuna: essere processato gli ha permesso di andare incontro alla morte mostrando più dignità  dei suoi uccisori e di essere presente in sé mentre moriva e non preda di emozioni incontrollabili. Tra tutte le uccisioni quella di annichilire una persona emotivamente mentre la si uccide fisicamente è la più violenta, la più distruttiva.


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