La guerra del clima
I dati raccolti dal Climate Action Tracker, gruppo indipendente di scienziati e attivisti che tiene traccia degli impegni assunti dai diversi stati in materia di emissioni di gas di serra, segnalano il gap tra gli impegni annunciati dai governi e la quantità di anidride carbonica e altri gas di serra in effetti sparati nell’atmosfera. La Cina, ad esempio: è in linea con gli impegni assunti durante il vertice di Copenhagen due anni fa, dice questo gruppo di analisti, ma le sue emissioni effettive crescono più in fretta di quanto anticipato. Insomma, il pianeta è molto lontano dall’obiettivo che si era dato durante il vertice di Copenhagen nel 2009: contenere l’aumento della temperatura media terrestre entro 2° oltre il livello precedente alla rivoluzione industriale, soglia considerata ancora troppo timida da molti ambientalisti ma indicata dal Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc) come il limite oltre a cui i cambiamenti climatici diverranno irreversibili.
Al momento l’unico trattato internazionale vincolante in materia è il Protocollo di Kyoto del 1977, che obbliga i paesi industrializzati a tagliare le emissioni del 5,2% complessivo (rispetto al livello del 1990) entro il 2008-2012. Protocollo poco efficace, perché poco rispettato e perché gli Stati uniti non l’hanno mai ratificato. E poi copre fino alla fine del 2012: la questione è se ci sarà una seconda fase, a cui aderiscano anche gli Usa e altri paesi che si erano tirati indietro, o se rinegoziare un accordo completamente nuovo. E lo scontro ricalca in gran parte la divisione tra paesi ricchi e poveri: i paesi in via di sviluppo insistono sull’estensione di Kyoto, che impone obblighi ai paesi ricchi che hanno i più alti consumi (ed emissioni) pro capite. Mentre Russia, Giappone e Canada dicono che non prenderanno parte a una seconda fase di impegni vincolanti a meno che gli obblighi siano estesi oltre che agli Usa anche alle «economie emergenti» – ed è ben vero che la Cina è da tempo il primo emettitore mondiale di CO2, superando gli Stati uniti (in termini assoluti, perché procapite gli americani restano di gran lunga i più grandi inquinatori al mondo). Quanto agli Usa, vogliono nuovi accordi che impegnino anche Cina, India, Brasile e altri «emergenti» – e sostengono un sistema di impegni volontari, piuttosto che vincolanti.
Con posizioni tuttora così distanti, nessuno spera che un nuovo accordo sul clima sia pronto per entrare in vigore nel 2013. I più sperano che a Durban in dicembre si definisca piuttosto un nuovo processo negoziale per un nuovo trattato. A Panama circola una proposta di mediazione, avanzata dall’Unione europea insieme all’Australia: tenere in vita il vecchio Kyoto in via transitoria (in modo che non crolli del tutto il «mercato delle emissioni» a cui aveva dato vita), e spostare la tabella di marcia al 2015. Due anni in più per negoziare un vero e proprio nuovo accordo con impegni pert tutte le parti in causa – la proposta chiede alle maggiori economie mondiali di rafforzare la propria azione per tagliare le emissioni e definire un modo per comparare e verificare ciò che fanno. I sostenitori della proposta dicono che è l’unico modo realistico per uscire dall’impasse. Molti paesi in via di sviluppo – compresa l’India – si oppongono. Intanto il clima continua a scaldarsi.
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