La Cina non conviene più

by Sergio Segio | 12 Ottobre 2011 7:22

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L’era in cui le corporation nordamericane facevano a gara per trasferire sempre più produzione in Cina si avvia al tramonto. E nei prossimi cinque anni, oltre il 15% dei beni attualmente fabbricati da aziende statunitensi nell’Impero di mezzo e poi importati tornerà  a essere «made in Usa» al 100%. All’origine di questa inversione di tendenza – analizzata dall’ultimo rapporto di Boston consulting group (Bcg) – due fattori determinanti: gli operai nella Repubblica popolare guadagnano sempre di più e, contemporaneamente, i lavoratori yankee diventano sempre più produttivi.
Nello studio, intitolato «Made in America, again», la società  di consulenza ricorda che «nel decennio trascorso dal suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), la Cina è diventata l’opzione predefinita per le aziende che desideravano esternalizzare la produzione per ridurre i costi. Dal 2000 al 2009, le esportazioni della Cina sono quintuplicate, arrivando a 1200 miliardi di dollari, e la sua porzione sull’export globale è salita dal 3,9% al 9,7%, secondo i dati della Conferenza sul commercio e lo sviluppo delle Nazioni Unite. Questi sviluppi sono stati registrati in un’ampia varietà  di industrie, da quelle di assemblaggio ad alta intensità  di lavoro, all’industria pesante, a quella high-tech». È anche grazie al lavoro sottopagato nel paese definito «la fabbrica del mondo» che nell’ultimo decennio i consumatori statunitensi hanno potuto acquistare prodotti a basso costo di tutti i tipi, da quelli esposti sugli scaffali dei Walmart, ai pezzi di ricambio per le automobili Ford.
Nel 2010 dalla prima e dalla seconda economia del Pianeta originavano rispettivamente il 19,4% e il 19,8% dei manufatti del mondo. Ora però, spiega Boston consulting, l’aumento dei salari (del 20% annuo, secondo i dati del governo di Pechino), del costo di trasporto delle merci e della terra – assieme al costante, graduale apprezzamento dello yuan – stanno «riducendo rapidamente» i vantaggi di produrre in Cina.
All’interno di queste dinamiche le lotte dei «migranti» – quei 153milioni di esseri umani arrivati dalle campagne e che, privi di diritti, trainano lo sviluppo delle metropoli industriali – meritano una menzione a parte. Ieri è stato pubblicato il documento «Unity is strength: the workers’ movement in China» (http://www.clb.org.hk/en/files/share/File/research_reports/unity_is_strength_web.pdf), della rivista – con sede a Hong Kong – China labour bullettin (Clb). Secondo Clb, la capacità  dei migranti di «organizzarsi sta migliorando e un crescente senso di unità  tra i lavoratori delle fabbriche, combinato con l’utilizzo dei telefoni cellulari e dei social network, ha reso più facile per i lavoratori iniziare, organizzare e sostenere le proteste». I dati raccolti e le analisi elaborate da Clb suggeriscono che un numero sempre maggiore di scioperi, animati soprattutto dalla «nuova generazione di migranti» (quelli nati dopo il 1980 e che costituiscono il 58,4% del totale) sta avendo successo e che i lavoratori stanno dando vita a un embrione di contrattazione collettiva.
Nello frattempo gli Usa – rileva Boston consulting – si stanno trasformando in un «paese a basso costo»: i salari si riducono o aumentano solo moderatamente, il dollaro si indebolisce, la forza lavoro è sempre più flessibile. Se questo trend continua – e a Bc sono convinti che continuerà  – nel giro di cinque anni per le aziende Usa sarà  più conveniente produrre in Stati come Alabama, South Carolina e Tennessee che nelle città  costiere della Repubblica popolare. E gli investimenti rientrati «a casa» potrebbero generare fino a 3,2milioni di posti di lavoro entro il 2020.
In alcuni settori, come il tessile, le parti di arredamento in legno e altri, restare in Cina continuerà  a rappresentare a lungo un vantaggio, ma i primi segnali del «Made in America, again» sono già  evidenti. Ford – dopo aver raggiunto un accordo col sindacato Uaw che le permetterà  di pagare i neo assunti 14 dollari all’ora – riporterà  in patria fino a 2.000 posti di lavoro. Peerless Industries, leader negli accessori per apparecchiature hi-fi, ha rafforzato la produzione in Illinois, spostandone parte dalla Cina. Anche Outdoor Greatroom ha trasferito la produzione dei suoi fornelli dalla Cina, a causa di «inconvenienti nei tempi di consegna».
In un quadro simile appare davvero azzardata la legge – in via di approvazione ieri notte al Senato Usa – che darebbe via libera al governo per imporre dazi su una serie di merci importate da paesi (la Cina, anche se non menzionata esplicitamente) accusati di tenere artificialmente basso il valore della propria valuta. Promotori della norma i senatori democratici Charles Schumer – secondo il quale «negli ultimi dieci anni a causa del crescente deficit commerciale con la Cina nello Stato di New York abbiamo perso 160.000 posti di lavoro, la maggior parteimpieghi ben retribuiti» – e Sherrod Brown, autore di «Miti del libero commercio: perché la politica commerciale americana è fallita».
Pechino negli ultimi giorni ha più volte e solennemente minacciato una «guerra commerciale» nel caso la proposta diventi legge. Ma ad affondarla, secondo quanto anticipato dal portavoce John Boehner, dovrebbe pensarci la più pragmatica maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti.

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