Kbul. La rivincita del rock musica del diavolo
Nella lista nera del mullah Omar c’era la televisione, c’erano gli aquiloni, c’erano le guance sbarbate di fresco, c’erano le rappresentazioni della persona umana, vietate dalle letture più retrive del Corano. E poi, naturalmente, c’era la musica: prodotto infernale che distraeva dalla preghiera. Ma nell’Afghanistan di fine secolo scovare i pochi vecchi televisori a tubo catodico era facile, e si poteva impiccarli per la via e usarli come bersaglio per il tiro a segno. I bambini terrorizzati restavano chiusi in casa, a sognare i giochi nel vento sulla collina sopra Kabul, accanto al mausoleo di Nadir Shah. Chi si azzardava a metter mano al rasoio, si auto-denunciava con le guance lucide alla polizia della virtù, guadagnandosi insulti e nerbate. E per le rappresentazioni umane, in prima fila i Buddha dell’odiata Bamiyan, roccaforte della riottosa etnia hazara, c’era il tritolo. Ma la musica, quella era difficile da fermare. Si rifugiava nella memoria, in crepitanti musicassette nascoste in fondo ai cassetti, in dischi polverosi testimoni di un futuro mai arrivato.
La leggenda vuole che subito dopo la liberazione di Kabul, strappata ai Taliban dall’Alleanza del nord sostenuta dai bombardamenti occidentali, le donne afgane abbiano buttato il burqa mentre barbieri e costruttori di aquiloni facevano affari d’oro. È una leggenda, appunto: il cambiamento è stato graduale, ed è ancora in corso. Ma quello che è riesploso subito nelle città era la voglia di prendere la strada più rapida per la modernità : le cassette tirate fuori dal nascondiglio in fondo all’armadio, i pochi strumenti musicali scampati alla follia distruttrice degli studenti coranici.
Adesso però il percorso è compiuto: in questi giorni per le vie di Kabul risuona addirittura il rock and roll, la musica del diavolo, suonata dal vivo negli splendidi giardini di Babur, attorno al sepolcro del primo imperatore Moghul. Rimesso a nuovo dall’Aga Khan, è un parco splendido, che di norma offre rari momenti di quiete accanto al traffico della Amanullah road, a due passi dal Parlamento afgano.
Stavolta però fra le aiuole e le fontanelle c’è musica ad alto volume: gruppi in arrivo dall’Australia, dall’Uzbekistan, dal Kazakhstan e naturalmente anche afgani, che stanno entusiasmando con brani blues, indie, elettronici e persino “death metal” gli oltre 400 spettatori paganti, molti dei quali non avevano mai sentito musica dal vivo.
Al festival Sound Central in corso fino al 9 ottobre, racconta il corrispondente della Reuters, ci sono ragazzi in abiti tradizionali e altri in jeans e maglietta, anziani in turbante che guardano da lontano e giovani in t-shirt che si esibiscono in passi di breakdance in mezzo alla folla incuriosita. C’è persino un gruppo di appassionati che nei giorni scorsi ha sfondato il cordone di sicurezza per salire sul palco a dimenarsi fra i suonatori, in linea con quello che si vede in Occidente.
Forse è presto per le dissacrazioni del punk, o per le sponsorizzazioni di bevande alcoliche, ma per i giovani della capitale è un passo davvero molto atteso verso la cultura contemporanea. Come l’ha definito con l’agenzia britannica Ahmad Shah, arrivato da Kandahar per l’occasione: «È un cambiamento rinfrescante».
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