Karzai non parla più ai taleban

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 Colpo di scena: il presidente afghano Hamid Karzai non vuole più colloqui di pace con i Taleban, dice che bisognerà  trattare direttamente con il Pakistan. Karzai si è espresso così ieri, parlando con un gruppo di leader religiosi a Kabul: ha detto di essere arrivato a questa conclusione dopo l’uccisione di Burhanuddin Rabbani, l’ex presidente (e leader della Jamiat-e Islami, la più antica organizzazione dell’islam politico fondamentalista in Asia meridionale), che lo stesso Karzai aveva messo a capo di un «Alto consiglio per la pace» creato per condurre i colloqui con i ribelli.

Rabbani è stato ucciso la scorsa settimana da un uomo che si era presentato a lui proprio come emissario dei Taleban, latore di un messaggio di pace – portava invece una carica di esplosivo nascosta nel turbante. E Karzai, che fin dai primi mesi di quest’anno ha investito tutta la sua credibilità  e perfino sopravvivenza politica in quello che ha pomposamente chiamato «processo di riconciliazione» con i taleban (i nostri «fratelli che sbagliano», li aveva definiti), ora è costretto a trarne qualche conseguenza: tra i Taleban, ha detto ieri, non c’è un partner per il dialogo. «Chi è dunque dall’altra parte del processo di pace? Non c’è altra risposta, è il Pakistan».
Poche ore dopo l’uccisione di rabbani, un portavoce dei taleban aveva rivendicato l’attentato in una telefonata all’agenzia Reuter; poco dopo però lo stesso portavoce ha diffuso un comunicato per negare di aver mai rivendicato nulla, e per dire che i taleban non commentano la morte di Rabbani.
Mentre Karzai parlava così, ieri il portavoce dei servizi di intelligence di Kabul ha dichiarato di aver trasmesso al Pakistan le prove che l’uccisione di Rabbani è stata progettata in territorio pakistano, «in un quartiere chic di Quetta», la capitale della provincia del Baluchistan dove si dice che si trovi buona parte della dirigenza dei Taleban afghani (è per questo che si parla di una «Shura di Quetta», gran consiglio dei taleban vicini a Mullah Omar). E negli stessi momenti, il ministro dell’interno afghano Bismillah Mohammadi ha dichiarato, al parlamento a Kabul, che uno degli organizzatori dell’omicidio è stato arrestato, e ha fornito prove che il servizio di intelligence militare pakistano (Isi) è coinvolto nell’attentato. Il Pakistan ieri ha solo ribedito la sua disponibilità  a cooperare in ogni indagine.
L’uccisione di Rabbani è in effetti un siluro alla «riconciliazione» su cui tanto ha puntato il presidente Karzai – il quale ora alza la voce, accusando il Pakistan di voler ostacolare il suo progetto. Ma ben prima dell’uccisione di Rabbani, sul dialogo con i taleban pendevano già  numerose incertezze, tra cui le divisioni nella leadership degli Stati uniti al riguardo: formalmente gli Usa (e tutta la missione Nato in Afghanistan) appoggia il progetto di riconciliazione di Karzai. Ma non tutti: il nuovo ambasciatore usa a Kabul Ryan Crocker, arrivato in giugno, ha dichiarato al Wall Street Journal che «i Taleban devono sentire più pressione prima che siamo davvero pronti a riconciliarli». Un’affermazione che avrà  dato fiato alla parte irriducibile dei taleban, quella opposta al dialogo.
Gli scambi di accuse tra Kabul e Islamabad non sono una novità , ma quella di ieri segue quella lanciata dagli Stati uniti dopo lo spettacolare attacco (rivendicato senza dubbi dai Taleban) a Kabul a metà  settembre, durato venti ore: gli Usa dicono che l’attacco è stato realizzato dalla rete Haqqani, un agguerrito clan radicato dai due lati della frontiera afghano-pakistana, alleato dei taleban e di al Qaeda. E aggiungono che è stato il Isi pakistano ad aiutarlo. Neppure quest’accusa è nuova, ma pronunciata in modo ufficiale dall’ammiraglio Mike Mullen, capo delle forze armate Usa, ha provocato vivaci proteste in Pakistan – sia nel governo, dia un po’ di manifestazioni di piazza di pruppi estremisti, venerdì, con bandiere americane bruciate. Ora Washington smorza i toni – lo stesso Mullen ha ribedito che l’alleanza con il pakistan è fondamentale, e «non ci sarà  soluzione nella regione senza il Pakistan». Certo è che intanto la guerra continua – ieri la Nato ha annunciato di aver fatto prigioniero Haji Mali Khan, un comandante militare – forse il più alto – della rete Aahhani in Afghanistam nonché zio di Sirajuddin Haqqani, l’effettivo capo del clan data l’anziana età  di suo padre, il capostipite, una volta alleato della Cia contro l’Urss. Khan sarebbe stato catturato nella provincia di Paktia. I Taleban hanno negato. Se confermato, sarà  un colpo notevole alla rete militare più temuta sia in Afghanistan sia in Pakistan.


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