Kampine, libri e De André. Nasce il primo museo rom

by Sergio Segio | 12 Ottobre 2011 6:12

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  È dedicato a Fabrizio De André il primo museo rom in Italia che appena inaugurato nel piccolo campo comunale di via Impastato, quartiere Rogoredo, Milano. Un omaggio al cantautore genovese con cui la famiglia Bezzecchi, che abita nel campo, ha collaborato alla stesura del testo di Khorakhané. Il museo non è uno dei primi effetti della giunta Pisapia come minacciato in campagna elettorale da destra e leghisti che, cavalcando le paure della gente sulla questione rom, prospettavano ai milanesi il pericolo di un’«invasione zingara» in caso di vittoria del centrosinistra. L’idea risale a cinque anni fa ed è diventata operativa nel 2008. Durante l’amministrazione Moratti l’Opera Nomadi della città , i residenti del campo, e alcuni volontari, hanno lavorato come «carbonari», ricorda Maurizio Pagani presidente dell’associazione milanese.
Ora fra le roulotte e le case mobili c’è un piccolo prefabbricato ripulito, imbiancato e attrezzato a biblioteca, con computer e testi da consultazione, fra cui una raccolta della rivista trimestrale Lacio Drom, diretta da Don Bruno Nicolini, con esemplari originali del 1966. Libri e video di studiosi, sociologi e attivisti che in questi anni si sono occupati del tema. Sarà  un centro di documentazione e informazione scientifica sulla cultura, la lingua, la musica e la vita di rom e sinti rivolto a studenti e scuole. «Il museo sarà  anche uno strumento per avviare una simbolica riappacificazione con i gagi (i non rom, ndr)», continua Pagani, e per tentare di smantellare i tanti pregiudizi ancora radicati sui rom.
Sulla piccola area demaniale di via Peppino Impastato, separata dalla tangenziale da un fossato in cui razzolano galli e galline, vivono circa quindici nuclei familiari. Sono rom harvati, italiani di origini croate, che alla fine della seconda guerra mondiale hanno lasciato le loro terre per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Sono tutti cittadini italiani residenti a Milano da circa quarant’anni. Il gruppo è composto da una grande famiglia allargata di circa quaranta persone il cui capofamiglia è Mirko Bezzecchi, nato in Slovenia 72 anni fa, sopravvissuto ai campi di concentramento. Dopo una vita nomade attraversando tutto lo stivale come giostraio ed ambulante, Bezzecchi si è fermato a Milano quando i figli, cinque maschi e tre femmine, erano in età  scolare. Ora la famiglia comprende nipoti e pronipoti, tutti inseriti in asili, scuole e istituti professionali. Sul valore del museo Bezzecchi esprime qualche perplessità : «dipenderà  da come viene accolto, capito e interpretato. I primi tempi la gente sarà  curiosa, poi staremo a vedere».
In questi anni gli abitanti del campo hanno stabilito un ottimo rapporto con il territorio, la percentuale di occupazione è del 99%, anche se alcuni di loro preferiscono nascondere le loro origini rom per il timore di perdere il lavoro. Nel piccolo museo diffuso, di cui lo stesso campo è parte integrante, ci sarà  una vecchia carovanina dei primi del ‘900 con installazioni mediatiche che raccontano la storia delle famiglie e del Porrajmos (la Shoah dei rom) oltre a filmati storici conservati nelle teche Rai. «E’ importante incontrare i rom nei loro luoghi, avere idea di cosa siano le kampine (termine rom con cui s’intendono le roulotte, ndr)», continua Pagani. Al taglio del nastro venerdì scorso c’erano diversi gruppi musicali della scena milanese e un autonegozio che serviva piatti della cucina tradizionale rom dell’area balcanica preparati da alcune donne che hanno frequentato i corsi di formazione organizzati dalla cooperativa Romanò Drom, di cui Giorgio Bezzecchi, figlio di Mirko, per ventitre anni consulente di giunta municipale per la questione rom e sinta, è presidente.
Per realizzare il museo un consorzio di cooperative, fra cui la Romanò Drom, ha presentato il progetto alla fondazione Cariplo che ha accettato di finanziarlo. Le attività  del museo partiranno a novembre con incontri di formazione per insegnanti, operatori sociali e volontari, corsi di lingua, cultura e musica rom. L’apertura del museo vuole essere anche «una sfida per provare a cambiare le relazioni con i cittadini – spiega Pagani – è un riconoscimento culturale che segna l’avvio di un nuovo modo di dialogare e discutere nuove strategie. Finora, su un tema che ha pesato molto sulla vita della città , abbiamo avuto un solo incontro con l’assessore alle politiche sociali della giunta Pisapia, poi nulla. Oggi vorremmo ripartire da qui per costruire un nuovo modo di dialogare».

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