INDIGNAZIONE STUDENTESCA

by Sergio Segio | 8 Ottobre 2011 6:44

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Ai presidi che si ritengono in diritto di fare la morale agli studenti – «se la politica è cosa seria e importante, devono risultare serie e credibili le forme della loro protesta. Dobbiamo dire in tutta sincerità  che non possono risultare tali le occupazioni che si sono ripetute negli ultimi anni», i collettivi rispondono alzando il tiro: «Voi dove eravate quando a poco a poco la scuola, e con essa il futuro di un intero paese, veniva scippata, derubata, quando a poco a poco tagliavano i bilanci, le ore, i professori, i banchi, la carta, le iniziative? Voi dove eravate quando si precarizzava il lavoro nel nome del libero mercato e della concorrenza, quando i vostri diplomati non sapevano dove sbattere la testa per trovare un lavoro? Voi dove eravate quando la cultura, che noi difendiamo era calpestata, derisa, ridicolizzata da grandi fratelli e idiozie televisive, quando l’informazione si faceva sempre di più disinformazione di regime? Forse dietro scrivanie ad applicare circolari contraddittorie e inapplicabili, contrarie al buon senso, contrarie a chi vuol difendere il diritto di una scuola pubblica di tutti e per tutti. Forse a dire che la legge è legge, che va applicata!».
Nella risposta dei collettivi sono ben chiari due punti fermi: la doppia natura dell’istituzione scolastica, al tempo stesso strumento di trasmissione del sapere dominante e di critica del sapere; e la visione generale all’interno della quale può essere colta la specificità  «locale» della scuola.
La distruzione del sistema scolastico pubblico, e la sua trasformazione in uno spezzatino all’interno del quale si inseriscono agenzie esterne, da quelle di valutazione a quelle fornitrici di servizi scolastici a pagamento; l’attacco ai diritti dei lavoratori della scuola, schiacciati tra l’incudine della precarizzazione e il martello disciplinare di Gelmini, Brunetta e Sacconi, in evidente risonanza col «laboratorio Fiat» di Marchionne. CONTINUA|PAGINA3 DALLA PRIMA
Girolamo De Michele E inoltre, la progressiva cancellazione della dimensione collegiale e partecipativa in favore di una scuola-azienda governata con piglio disciplinare da dirigenti allettati dalla carota di un microfascismo gestionale: tutto questo va calato nella scientifica suddivisione della trama del sapere come dimensione comune in fette «pubbliche» (di competenza delle istituzioni) e «private» (consegnate alle imprese, prima tra tutte Finmeccanica); nel processo di decostituzionalizzazione che modifica di fatto la costituzione materiale con atti amministrativi – dalle circolari-bavaglio ministeriali all’articolo 8 della finanziaria, accomunati dalla cancellazione dello Statuto dei lavoratori; nel completamento di un’opera di creazione – citiamo ancora dalla risposta dei collettivi toscani – di «un paese alla deriva che non crede più nella solidarietà  ma che diventa ogni giorno più solo e più cattivo».
Un’opera, questa, avviata negli anni Ottanta, e che richiede per il suo compimento la distruzione di ogni luogo di produzione dell’intelligenza critica, e dunque della scuola. Ma anche le risposte che sono arrivate lo scorso anno, e la cui prosecuzione è già  annunciata dalle prime scadenze, vanno considerate su scala generale, come sintomi di un bisogno di insorgenza che prende piede all’interno delle molte forme che l’indignazione sta sperimentando – dagli esiti referendari al neo-femminismo del movimento «Se non ora, quando?», fino alla solo in apparenza «provinciale» vicenda di Parma.
Le forme di resistenza che, anche sul piano giuridico, le reti di insegnanti hanno saputo mettere in atto, dall’opposizione ai test Invalsi ai ricorsi ai Tar, hanno mostrato una capacità  di inchiesta, di conricerca sul terreno sia della forma giuridica, sia della consistenza materiale del mondo scolastico, che è una vera e propria forma di costruzione del comune, con un uso accorto e sapiente della rete e delle reti per condividere e approfondire le forme di lotta.
Le proteste studentesche, culminate con le giornate del dicembre (non solo quella del 14) hanno evidenziato una materiale saldatura tra le proteste del mondo universitario, che in nessun modo possono essere ricondotte alla pretesa «difesa del vecchio», e l’assenza di prospettive di vita per una generazione che si è data come parola d’ordine «non rubateci il futuro». E se anche dagli errori delle lotte del dicembre può – e deve! – essere tratta una lezione, essa riguarda non la radicalità  messa in atto contro la cartolarizzazione delle speranze, delle esistenze e del futuro, ma l’aver convogliato questa radicalità  su un luogo simbolico – il Parlamento – e su un evento «messianico» – la «spallata» al governo.
È infatti evidente che la gravità  dell’attacco generalizzato ai diritti e al sapere critico presenti e futuri, e la pari gravità  della crisi globale, non può essere compressa in una mera pratica di resistenza e ricondotta alla formazione di cartelli più o meno elettorali: il compito che attende i movimenti – dentro e fuori la scuola – è la loro saldatura in una dimensione comune che generalizzi le esperienze di lotta e ponga all’ordine del giorno quella necessaria radicalizzazione che manca a chi cerca la risposta alla crisi in atto nelle pieghe delle mediazioni politiche.
L’attuale classe politica, proprio come i presidi chiamati in causa dagli studenti toscani, «ci consegna un paese sull’orlo di un abisso economico, pieno di privilegi e di marciume, una mignottocrazia dove la cultura ha meno valore di un calciatore panchinaro o di una velina semiscoperta»: gli studenti che ieri sono scesi in piazza, nella loro precarietà  che allude alla più generale dimensione precaria dell’esistenza al tempo della crisi, possono forse indicarci nuove, attuali e praticabili forme di insorgenza dal basso.
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