by Sergio Segio | 15 Ottobre 2011 7:09
Lungi dal rallegrarsi per il prestigioso incarico che un nostro connazionale verrà chiamato ad assolvere fra due settimane al vertice della Banca centrale europea, gli indignados lo demonizzano. Per loro, Draghi ribelli, il governatore rappresenta la personificazione di una cupola tecnocratica che impone sacrifici ai poveri e protegge i ricchi, costringendo i governi a onorare i debiti sovrani e finanziare le banche in crisi. Lo stesso presidente Napolitano viene criticato dai manifestanti per la sua “sottomissione” alle richieste della finanza internazionale, di cui Draghi sarebbe il rappresentante.
Fino a ieri nel nostro paese era più facile trovare qualcuno disposto a parlar male di Garibaldi, piuttosto che a criticare apertamente la Banca d’Italia, istituzione che ha sempre goduto di un raro rispetto bipartisan. Mai prima d’ora Palazzo Koch e le sedi periferiche della Banca d’Italia erano stati oggetto di azioni dimostrative e tentativi d’occupazione. È doveroso che tali proteste si mantengano entro i limiti della legge e della nonviolenza, ma, ciò premesso, sarebbe ingenuo liquidarle come isolato fenomeno estremista.
I giovani scolarizzati ma precari, i lavoratori autonomi della conoscenza e i dipendenti delle aziende in crisi, masticano abbastanza di economia e sono abbastanza informati sui meccanismi di arricchimento al vertice della piramide sociale, da trarne una consapevolezza divenuta senso comune: il potere e i soldi si allontanano; la finanza convive sempre peggio con la democrazia.
Ciò spiega il palese disinteresse rivelato dagli indignados nostrani, tutt’altro che provinciali, anzi, compiaciuti del proprio gergo poliglotta, nei confronti delle convulsioni parlamentari e governative in atto. Snobbano Berlusconi, marionetta in disuso; prendono sul serio Napolitano, quale garante della sovranità nazionale; ma gli preme di misurarsi con Draghi, figurandoselo entità sovrastante. È come se volessero sottolineare l’irrilevanza della politica, imbelle nel fronteggiare la Grande Depressione. Una politica soggiogata per intero al diktat che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi il 5 agosto scorso hanno avuto l’ardire di certificare per iscritto, nella loro lettera ultimativa al governo italiano. Procedura inusitata, quella lettera, ma senza la quale probabilmente la Bce non avrebbe mai approvato il provvidenziale piano d’acquisti di Titoli di Stato italiani.
Ecco spiegata la ruvida attenzione concentrata sulla Banca d’Italia, di per sé un’istituzione dotata di poteri d’indirizzo e vigilanza tutto sommato ridotti, da quando non c’è più la lira; eppure riconosciuta più autorevole degli altri Palazzi, in quanto “succursale” di un vero potere sovranazionale. Perfino la torbida controversia sulla nomina del successore di Mario Draghi, irresponsabilmente trascinata oltre i limiti della decenza, contribuisce a enfatizzare Via Nazionale come nuovo Palazzo d’Inverno.
Mercoledì scorso, quando hanno consegnato al Presidente della Repubblica una lettera alternativa a quella firmata da Draghi e Trichet, chiedendo un rovesciamento delle priorità in essa contenute, i Draghi ribelli hanno compiuto un gesto tutt’altro che sprovveduto. Segnalano l’emergere su scala planetaria di un pensiero fortemente alternativo ai vincoli imposti dai mercati finanziari.
C’è molto imbarazzo nella sinistra italiana a discuterne, per il timore di figurare poco affidabili in Europa proprio ora che sembra riavvicinarsi la prospettiva del governo. Ma con le istanze del movimento che scende in piazza oggi a Roma sarà doveroso fare i conti. Perché la sinistra del futuro non potrà contraddistinguersi per il solo risanamento finanziario. Dovrà cimentarsi in un difficile tentativo di redistribuzione della ricchezza, dopo la lunga stagione dell’iniquità .
Le tende dei ragazzi accampati di fronte ai palazzi della finanza sono una visione imbarazzante e forse molesta. Ma contengono un presagio biblico, liberatorio, come di un deserto da attraversare con speranza. Non ce ne libereremo facilmente.
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