il vescovo che dà  voce alla “primavera” di Locri

by Sergio Segio | 11 Ottobre 2011 6:28

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In quel paese non ci voleva andare nessuno. Dal Vaticano lo chiesero a molti monsignori, tutti rifiutarono. Così Locri rimase per un anno senza vescovo. Quello di prima viveva da mesi sotto scorta, alcuni sacerdoti erano stati minacciati pubblicamente, un parroco ferito a fucilate. Poi è arrivato “padre Giancarlo”, trentino di origine, un lontano passato di operaio alla catena di montaggio e uno più vicino di cappellano nelle carceri. Era il 7 maggio del 1994. «E le prime ventiquattro ore nella Locride furono determinanti per segnare tutto quello che avrei fatto in seguito in Calabria», scrive Giancarlo Bregantini all’inizio di un libro (Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia. Piemme Edizioni, pagg 193, euro 19,50) che è un ricordo dopo l’altro dei suoi tredici anni vissuti nella terre dove i boss sono i veri padroni. Il primo giorno da vescovo, sotto il palco dove stava parlando gli fecero trovare una finta bomba. Era il “benvenuto” dei pezzi da novanta al nuovo capo della chiesa di Locri.
Una missione nel Sud più estremo e una sfida alla ‘Ndrangheta. Da fuori e da dentro. Con le sue omelie e le sue scomuniche, con i suoi gesti di ribellione e con la profonda convinzione «che bisogna dialogare anche con i lupi». Coraggioso nella denuncia, “padre Giancarlo” una volta è a Duisburg per abbracciare la comunità  calabrese dopo la strage del Ferragosto 2007 (sei ragazzi uccisi davanti al ristorante “da Bruno” per la guerra infinita fra i Nirta e i Strangio da una parte e i Pelle e i Vottari dall’altra) e un’altra volta è nella casa di una donna di San Luca che piange il figlio ucciso nella faida. Sempre in mezzo ai suoi fedeli. A tutti. Anche a quelli. Un bisogno di comunicazione con il male che ha esposto il nuovo vescovo di Locri a qualche rimprovero, un credo che l’ha costretto a subire anche le voci più velenose. Ma lui è andato avanti per la sua strada. Sempre.
È tutto raccontato nelle pagine di quello che sembra un diario – scritto con la giornalista Chiara Santomiero –, un viaggio nella memoria dal suo sbarco nella Calabria più misteriosa fino al sostegno ai ragazzi di “Ammazzateci Tutti” appena dopo l’uccisione del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. È stato il primo segno di sollevazione in una regione italiana affondata fino ad allora nell’indifferenza e nel silenzio, un muro di omertà  che è cominciato a cedere – era l’ottobre del 2005 – con il vescovo Bregantini protagonista di una rivolta morale e ispiratore di una inaspettata (per i capi mafiosi, soprattutto) “primavera” calabrese. Neanche un anno dopo – nel marzo 2006 – eccolo che si scaglia ancora contro gli uomini della ‘Ndrangheta: proprio a loro lancia la sua scomunica. Avevano avvelenato l’acqua che stava facendo crescere i frutti di bosco sulla schiena dell’Aspromonte, in un istante era andato in rovina il lavoro di un anno intero dei contadini di una cooperativa fra San Luca e Platì. La rabbia di “padre Giancarlo” esplose. Nei bracci del 41 bis i padroni della Calabria, come ricorda il vescovo nel suo libro, «si sentirono maledetti». Ma poi, è sempre lui con quella sua voglia di capire e di salvare. L’abisso del male e la misericordia. E, naturalmente, anche la speranza per un’altra Calabria: «Dobbiamo credere che se il bene avanza la mafia arretra, il destino non è ineluttabile».

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