by Sergio Segio | 1 Ottobre 2011 6:43
Ahmad Naggar invita alla cautela. «Nazionalizzare di nuovo le imprese statali svendute e privatizzate negli anni passati è un bel progetto ma difficilmente farà parte del programma dei futuri esecutivi», ci dice l’economista egiziano, autore di studi sul mondo del lavoro che hanno contribuito al dibattito sull’aumento del salario minimo (che a gennaio 2012 verrà portato a 700 pound, circa 80 euro). «Certo, nazionalizzazione è affascinante ma al momento questa possibilità riguarda solo quelle imprese statali che sono state privatizzare in modo illecito, per ora è solo una questione di legalità più che una svolta politica».
Ma forse Naggar è troppo pessimista di fronte a qualcosa che non riguarda solo le aule dei tribunali dove, nei giorni scorsi, è stato sentenziato il ritorno allo Stato della «Tanta Company for Linen and Derivatives», della «Ghazl Shebeen Spinning» and «Weaving Company della Steam Boilers Company». Si tratta di tre imprese svendute a imprenditori sauditi e indiani durante gli ultimi anni al potere dell’ex presidente di Hosny Mubarak, costretto a dimettersi dalla rivolta popolare di gennaio e fabbraio. I proprietari dovranno anche coprire i debiti accumulati dalle tre imprese che prima della privatizzazione davano lavoro a migliaia di lavoratori. L’imprenditore indiano azionista di maggioranza della «Ghazl Shebeen Spinning», ad esempio, ha preso il controllo della fabbrica pagando 90 milioni di pound (poco più di 10 milioni di euro) mentre il valore di mercato era di 170 milioni. Ha anche ridotto il numero dei dipendenti da 4 mila a 1.500, mandando in rovina migliaia di famiglie.
Ma il movimento per il rilancio della nazionalizzazione vuole andare ben oltre il ritorno allo stato di queste tre industrie. Il Partito democratico del lavoro, i Rivoluzionari socialisti, il Fronte Nazionale per la Giustizia e la Democrazia e l’Unione per la Libertà di Stampa, sono riusciti a raccogliere sino ad oggi oltre 100 mila firme a sostegno della loro campagna – lanciata in Piazza Tahrir – contro il programma di privatizzazione delle imprese pubbliche e il decreto anti-sciopero emesso dal Consiglio supremo delle Forze Armate e dal governo che, tra polemiche e proteste, guidano la transizione egiziana. A maggio queste forze politiche ispirate al marxismo avevano già ottenuto il ritorno del gigante «Omar Effendi» (elettrodomestici e mobili) allo stato e ora puntano ad ottenere lo stesso risultato con la «Ginning Cotton». Assisteremo perciò ad un ritorno in Egitto del programma di nazionalizzazioni legate al nome dell’ex presidente Gamal Abdel Nasser? Il cuore di non pochi egiziani batte in quella direzione ma quei tempi sono lontani. Il mondo oggi è radicalmente diverso e gran parte delle forze politiche egiziane sostengono il modello capitalista, inclusi i Fratelli Musulmani che, come tutti i movimenti islamisti, non mettono in discussione la proprietà privata e vedono nella carità la forma privilegiata di assistenza ai poveri.
Nasser nel 1956, di fronte al rifiuto opposto dalla «Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo» alla richiesta di finanziamenti per la costruzione della seconda diga di Aswan, nazionalizzò la Compagnia del Canale di Suez. Un atto che costò all’Egitto l’aggressione militare di Gran Bretagna e Francia, principali azionisti della compagnia, che insieme a Israele occuparono la zona del canale. A partire dal 1961, il leader egiziano lanciò un vasto piano di nazionalizzazioni, nel quadro di un modello di «socialismo arabo» in contrapposizione al modello capitalistico adottato dai paesi arabi «moderati» filo-Usa, come l’Arabia Saudita. «Il nasserismo non è un sistema riproducibile nell’Egitto dei nostri giorni, a meno di sconvolgimenti economici e politici più profondi della rivoluzione del 25 gennaio che ha fatto cadere Mubarak da 30 anni al potere» spiega Ayman Hamed, giornalista del quotidiano Tahrir. «Gli impreditori sono già in stato di allerta – aggiunge – e minacciano di rivolgersi ai giudici per impedire l’eventuale nazionalizzazione delle imprese che avevano acquistato dallo stato». Hamed sottolinea inoltre che i militari al potere, sotto la pressione delle lobby economiche più potenti, guardano con molta attenzione allo sviluppo del movimento per la nazionalizzazione delle imprese privatizzate.
Secondo una teoria, gli investimenti dall’estero sarebbero precipitati in questi mesi non solo per l’instabilità seguita alla rivolta anti-Mubarak. «Gli imprenditori stranieri – dice il giornalista di Tahrir – esitano ad investire nell’acquisto di imprese egiziane che potrebbero perdere per una decisione politica o per una sentenza dei giudici».
Per Houssam Hamalawi, storico attivista dei diritti dei lavoratori e noto blogger, si commette un errore a inquadrare tutto all’interno soltanto di un possibile nuovo piano di nazionalizzazioni. «È il fermento sociale ciò che conta in questo momento. Abbiamo di fronte un movimento dei lavoratori in forte crescita come dimostrano gli scioperi di queste ultime settimane e un sindacalismo indipendente sempre più forte ed incisivo. La trasformazione di questo paese e la fine dello sfruttamento di milioni di lavoratori non sono più impossibili», ci ha detto Hamalawi durante un incontro al Cairo. Troppo cauto l’economista Naggar o troppo ottimista il rivoluzionario Hamalawi? Dare una risposta secca non è semplice. Ma una cosa è certa, settembre è stato un mese di scioperi di massa, di centinaia di migliaia di lavoratori in strada. Dalle scuole alle università , dalle fabbriche ai ministeri. Protagonista principale la Federazione dei Sindacati Indipendenti. Mobilitazioni volte ad ottenere l’aumento dei salari da fame che percepiscono i dipendenti pubblici e privati ma che sono anche il risultato della delusione per le mancate trasformazioni del dopo-Mubarak. «Gli scioperi dicono che gli egiziani non accettano la linea conservatrice del governo e dei militari in economia e in politica – dice Joel Benin, docente universitario e autore del libro “La lotta per i diritti dei lavoratori in Egitto” -, gli egiziani vogliono salari decenti, la possibilità di comprare cibo a sufficienza, di acquistare una casa, sanità ed istruzione di buon livello. E non si fermeranno». E all’orizzonte qualcuno scorge una seconda rivoluzione egiziana.
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