Il terrorista dall’accento del New Mexico che il Pentagono invitò a pranzo

by Sergio Segio | 1 Ottobre 2011 6:41

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Finisce mentre era in viaggio, metafora perfetta di una vita spesa nell’andirivieni da luoghi assai lontani, culturalmente e geograficamente, la vita del terrorista globalizzato Anwar Al Awlaki.
Era uno dei più ricercati leader di Al Qaeda: il più efficace reclutatore, maestro della propaganda, predicatore internauta, mentore dei terroristi dell’11 settembre, che egli aveva avvicinato e incoraggiato. L’affabulatore, col suo accento americano del New Mexico, di nuove schiere di terroristi anglofoni: come il maggiore texano Nidal Hassan, che ha fatto strage nella base militare di Fort Hood nel 2009, dopo lunghi scambi di e-mail con Al Awlaki; o come il nigeriano Umar Farouk, che voleva fare esplodere un volo transatlantico nei cieli sopra Detroit il giorno di Natale quell’anno.
Al Awlaki è stato eliminato da una salva di missili Hellfire sganciati dai droni Predator: l’arma high-tech scelta dall’amministrazione Obama per individuare e abbattere i bersagli più importanti, senza impantanarsi nella “guerra al terrore” condotta con mezzi convenzionali da Bush. Al Awlaki è anche il primo qaedista di cittadinanza americana, preso a bersaglio da un omicidio mirato. Rampollo di una famiglia di notabili yemeniti, era nato nel 1971 nel New Mexico. Il padre perfezionava la formazione grazie a una borsa Fulbright. Come il genitore, Al Awlaki, trascorsa l’adolescenza nello Yemen, torna in America negli Anni ‘90: una laurea in ingegneria civile a Denver, il master di orientamento umanistico a San Diego. Poi, nel 1993, un’estate al “campus” dei giovani affascinati dall’Afghanistan, la terra dei “vittoriosi mujahiddin”. Ne riporta un copricapo afgano, esibito con orgoglio all’università  del Colorado.
Alle pendici dell’Hindu Kush, Al Awlaki si è avvicinato alle posizioni teoriche sul “jihad liberatore” di Abdullah Azzam, primo mentore di Bin Laden. Nel 1994, sposata una cugina, diventa imam a Denver; più tardi, a San Diego.
È ormai l’uomo dalle molteplici personalità : rappresentante di un Islam tollerante in un’America multiculturale, intervistato dal Washington Post per illustrare il Ramadan; invitato a pranzo al Pentagono per promuovere il dialogo inter-religioso; attivista americano impegnato nella difesa dei diritti dei musulmani; accusato di induzione alla prostituzione in California; assertore della teoria del complotto dopo l’11 settembre, che gli cambia – a suo dire – la vita: «L’America si è trasformata in una nazione di malvagità », scrive su un sito web estremista. Fino a fargli dire, in marzo, «la Jihad è americana quanto l’apple pie, e britannica quanto il tè pomeridiano».
Già  negli anni di San Diego infittisce i contatti con membri o simpatizzanti di Al Qaeda. Diventa imam in una moschea di Falls Church ma, quel che più conta, è la figura religiosa ufficiale alla George Washington University. Le prediche in un inglese fluente, l’arte oratoria sui temi più disparati, attirano i giovani musulmani che non parlano l’arabo, sedotti dall’estremismo. Dopo l’attacco alle Twin Towers viene interrogato dall’Fbi: il suo numero di telefono spunta nell’appartamento amburghese di Ramzi Bin Al Shibh, il “ventesimo uomo” dell’11 settembre. Nonostante i sospetti, Al Awlaki è il primo imam a celebrare la preghiera per i musulman al Congresso.
La doppia biografia, leader riconosciuto dai poteri pubblici e sospetto simpatizzante qaedista, lo tiene nel mirino dell’Fbi. Nel 2002 va in Gran Bretagna. Nel 2004 torna nello Yemen, lettore all’Università  Iman. Lì è arrestato nel 2006, per il tentato rapimento dell’addetto militare americano. La prigione lo radicalizza ancora. Il resto è cronaca di ieri. Passa alla militanza qaedista, capo delle operazioni esterne di Al Qaeda nella Penisola arabica. Con la sua perdita Al Qaeda subisce il terzo duro colpo in pochi mesi, dopo la morte di Bin Laden e di Al Libi. E, forse, Al Zawahiri si libera di un pericoloso contendente per la leadership.

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