Il premier e Tremonti mai così distanti tra accuse e richieste di dimissioni

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ROMA — Dicono che «mai come ora» siano stati tanto distanti. Che mai come in questo cruciale passaggio della lettera di intenti, e di impegni cogenti, da presentare all’Europa, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti si siano guardati così in cagnesco. E parlati così chiaramente.
Che i rapporti tra i due a livello umano e personale siano ormai deteriorati non è più neanche una novità . Dopo le liti estive per una manovra che, secondo il ministro dell’Economia, non poteva venirci dettata dalla Bce di quel Draghi che «si muove nell’interesse di Francia e Germania», dopo l’ira di Berlusconi contro quel Giulio che «mi esaspera, non lo sopporto più», nelle scorse settimane si è anche tentato di minimizzare, di cercare la via per una convivenza forzata anche se urticante. C’era il decreto Sviluppo da varare, c’era da affrontare un’Europa che si sapeva aspettarci all’angolo.
Ma nella lunga e a tratti drammatica tre giorni che ha portato alla stesura del documento portato ieri dal premier a Bruxelles, nelle ore concitate in cui l’accordo con una Lega irremovibile sulle pensioni di anzianità  non si trovava, tanto da far paventare a Bossi un serissimo rischio crisi, Berlusconi e Tremonti sembravano ormai seduti su opposte barricate.
Ieri mattina poi, a suggellare la distanza tra due visioni ormai del governo, c’è stato il fitto scambio di consigli e suggerimenti nella triangolazione Roma-Europa-Bce che ha portato alla nuova stesura del documento. Tremonti era assente al vertice mattutino di via del Plebiscito e lì — dice un alto esponente del Pdl «di fatto è stato commissariato: anche grazie all’aiuto di Draghi, che stavolta sicuramente ha svolto un ruolo per noi molto positivo, non è più Tremonti che può dire “questo si fa, questo no”, ora le cose da fare le abbiamo indicate, sono scritte nero su bianco e le faremo, che lui lo voglia o no. Se non gli sta bene, voti contro in Consiglio dei ministri, e vediamo che succede».
Da Via XX settembre smentiscono attriti, assicurano che si è lavorato «assieme» e negano particolari tensioni. La stessa formale versione arriva da Palazzo Chigi, dove si parla di un rapporto tra i due certo non facile, ma alla fine «l’accordo si è trovato, con il contributo di tutti». Anche di Tremonti dunque.
E però, i tanti che hanno preso parte alla maratona delle trattative, giurano che sul merito delle misure, sul metodo giusto per procedere, Berlusconi e Tremonti hanno percorso fin dal primo momento strade diverse. E divisi hanno marciato anche il ministro e il resto dei suoi colleghi, che oggi rivendicano di aver vergato un documento in cui dei voleri e delle scelte di Tremonti «non c’è molto, anzi». E di averlo fatto anche senza di lui.
Sì perché dopo la notte in cui si è sfiorata la rottura — quella di lunedì, quando il lungo vertice dopo il Consiglio dei ministri si è concluso senza accordo — martedì Tremonti ha mostrato la sua distanza dalle scelte che si stavano facendo addirittura disertando parte del vertice decisivo durante il quale si è siglata l’intesa con il Carroccio. E questo anche perché, raccontano nel Pdl (e smentiscono dall’entourage di Tremonti), nel pomeriggio di martedì si sarebbe addirittura arrivati a un faccia a faccia tra i due nel quale il ministro — pur pacatamente — avrebbe ipotizzato la necessità  che Berlusconi facesse un passo indietro e si dimettesse, visto che la situazione era bloccata e apparentemente senza vie d’uscita. Ipotesi alla quale il Cavaliere avrebbe replicato con una sorta di contro-invito secco: il passo indietro fallo tu.
Ovviamente, nessuno dei due ha la minima intenzione di farlo davvero il passo indietro, lo sa bene l’uno come lo sa l’altro. E c’è chi sostiene che, comunque, dell’eventualità  di dimissioni avrebbe parlato piuttosto Calderoli. Ma al di là  dei singoli episodi, le diffidenze cominciano ad essere troppe anche per fingere un’armonia di facciata. E i prossimi passaggi non si annunciano per niente facili, se è vero che il premier — dicono alcuni che gli hanno parlato — è ormai arrivato non solo a considerare insopportabile il caratteraccio del ministro, ma a dubitare della fedeltà  del ministro al governo in carica, nonostante con lui, dicono i suoi avversari nel partito, «non è più detto che ci sia nemmeno la Lega».


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