by Sergio Segio | 11 Ottobre 2011 6:25
SABRATHA. Il palazzo verde di tre piani ha la stessa altezza dell’imponente teatro romano di Sabratha. Li separano meno di trecento metri, un campo sabbioso e una cancellata bassa, da cui si accede al sito archeologico patrimonio dell’Unesco. La palazzina ha il lato est distrutto da un colpo di mortaio, le finestre sono buchi anneriti dal fumo, le pareti portano i segni di mitragliate e proiettili di armi pesanti. Il teatro, sembra un miracolo, è pressoché intatto. La battaglia c’è stata anche qui, la violenza della repressione di Gheddafi sulla rivolta popolare non ha risparmiato Sabratha che, anzi, dal 22 febbraio in poi è stata uno dei punti cruciali per l’avanzata dei ribelli verso la capitale. Sulla strada costiera che dal confine con la Tunisia porta a Tripoli è proprio a Sabratha che si vedono i primi segni della guerra. Le case più alte hanno i tetti sfondati, non c’è un vetro intatto dal secondo piano in su, gli incendi hanno annerito facciate e portoni.
Lungo la strada principale, che taglia in due la cittadina, a meno di un chilometro dalle rovine romane, un ammasso di macerie e ferri contorti è quel che rimane di una caserma, rasa al suolo da uno dei raid Nato. Impensabile che i delicati bassorilievi marmorei del pulpitum del teatro romano o i preziosi mosaici delle terme di Sabratha siano stati risparmiati. Il muro di contenimento della scena del teatro, che guarda a Est, conferma i timori, una raffica ha inciso ancora una parte di storia su queste pietre vecchie di oltre 1800 anni e un foro di circa mezzo metro di diametro dimostra il pericolo corso dai monumenti romani. Ma è tutto. Sono intatti, nel museo adiacente, gli splendidi mosaici restaurati grazie soprattutto al lavoro degli archeologi italiani. Troneggia al centro della sala dei marmi la statua di Giove, sono rimasti a sfidare la salsedine le colonne dei templi e il mausoleo di Bes.
Adi Abucress si muove rapido tra le rovine, si fa fatica a stargli dietro mentre si affanna a mostrare che è tutto come prima, dopo aver indicato i fori dei proiettili sul muro del teatro. Fa la guida turistica, parla italiano perché ha vissuto per due anni a Roma ed è preoccupato che ci voglia parecchio tempo perché i turisti tornino da queste parti. «Ai gheddafisti della cultura non importa nulla, neanche sapevano che cosa è Sabratha – racconta – perciò non avevamo tanta paura dei saccheggi, quanto dei missili. A febbraio, quando è cominciata la rivolta, i carri armati hanno sparato nelle strade della città e speravamo che a nessuno venisse in mente di rifugiarsi da queste parti, ma quando sono cominciati i bombardamenti della Nato, a metà agosto, abbiamo temuto il peggio». «Mio figlio e mio nipote erano con i ribelli sulle montagne a Zintan – continua – e da lì sono riusciti a rassicurarci. Ci dicevano che la Nato bombardava soltanto obiettivi sicuri, su indicazione dei ribelli».
La Nato prendeva la mira, i lealisti, invece, pensavano a coprirsi la fuga. «I giorni tra il 15 e il 18 agosto sono stati i peggiori – dice Mehmet Amhara, responsabile amministrativo del sito – noi abbiamo deciso di restare qui negli uffici, ci siamo armati di bastoni e qualche coltello e abbiamo dormito vicino al museo». A guardia di opere d’arte di valore inestimabile ci sono infatti portoni di legno chiusi da un lucchetto, le finestre si forzano con niente. «Il 17 agosto mio figlio è riuscito a telefonarmi – prosegue Adi Abucress – e mi ha avvisato che si preparavano a entrare a Sabratha. Gli ho detto che noi saremmo stati nel sito, pronti a dargli una mano e decisi a difendere i monumenti. Lui mi ha rassicurato che avevano preparato l’incursione e che il teatro sarebbe stato risparmiato».
Il racconto si fa concitato, adesso ci sono una quindicina di persone intorno – impiegati, custodi, guide – e tutti vogliono aggiungere particolari e mostrare da quale punto hanno visto arrivare un razzo che ha sfiorato la guglia del mausoleo di Bes, o in quale momento hanno sbarrato l’ingresso anche ai ribelli, che volevano prendere una scorciatoia per bloccare la strada ai lealisti in fuga. «Davvero è stata un’offensiva preparata bene – conclude Abucress – i bombardamenti Nato hanno chiuso la strada verso Tripoli, a Ovest, e i lealisti hanno cercato di fuggire verso Est, in direzione della Tunisia. Ma c’erano i nostri ad aspettarli e li hanno costretti a fermarsi in una zona aperta, a mezzo chilometro dal sito, dove il lavoro è stato finito dalla Nato. Soltanto una ventina di sbandati è riuscita a scappare a piedi, li abbiamo visti correre lungo il mare, poco più in là del teatro. Eravamo pronti a impedirgli l’accesso alle rovine, ma non c’è stato bisogno, non pensavano ad appesantirsi la fuga con i marmi di Sabratha».
La mattina del 18 agosto la bandiera della Libia libera sventolava sul teatro. «Ho dovuto difendere ancora il sito – ride uno dei custodi – tutti quei giovani euforici che si arrampicavano ovunque rischiavano di fare dei danni».
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