by Sergio Segio | 5 Ottobre 2011 7:15
NEW YORK – Sia Wall Street che il Tesoro Usa a Washington sembravano aspettarsi il nuovo declassamento dell’Italia, con i loro allarmi su “cinque settimane di tempo per salvare l’euro”, da qui al G20 di Cannes. I Signori del Rating colpiscono ancora, e riesplode la polemica sulla loro “dittatura” che ha valore di legge per i mercati. Tutte le ipotesi di riforma sono state regolarmente sconfitte. La Commissione europea, che aveva lanciato proclami di guerra, non ha dato un seguito. Era troppo sospetta la tempistica di quei propositi bellicosi: la credibilità di Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch è molto controversa, ma dei loro limiti ci si ricorda solo quando arriva un voto sgradito. Il sospetto dei mercati, è che i governi vogliano “spezzare il termometro che misura la febbre”. Nel caso dell’Italia, i dubbi sulla solidità delle finanze pubbliche li ha confermati, molto prima di Moody’s, lo “spread” o differenziale di rendimento larghissimo tra i nostri Btp e i Bund tedeschi. Quello è un segnale incontrovertibile perché dietro ci sono i comportamenti di tutti gli investitori istituzionali (italiani inclusi), costretti dalla paura a chiedere rendimenti più elevati per garantirsi dal rischio default. I dubbi sull’Italia li ha confermati indirettamente lo stesso ministro dell’Economia Giulio Tremonti, giustificando il minore “spread” sui bond spagnoli col fatto che Madrid ha deciso elezioni anticipate: ha sollevato così la questione della credibilità del suo governo. Un fattore che entra a pieno titolo nelle considerazioni delle agenzie di rating. Oltre al peso di deficit e debito sul Pil, infatti, nei loro voti sugli Stati sovrani i Signori dei Rating incorporano un giudizio sull’attendibilità del percorso di risanamento.
Le agenzie di rating sono sopravvissute senza danni alla grande crisi del 2007-2009, nonostante le loro responsabilità nella vicenda dei mutui subprime. Hanno sconfitto Barack Obama, sottraendosi alle riforme dei mercati finanziari. Hanno ignorato le minacce della Commissione europea, che ventilò l’ipotesi di renderle legalmente responsabili in caso di giudizio sbagliato. Il loro ruolo è più centrale che mai, visto che i loro “voti” li pagano tutti i contribuenti europei, sotto forma di un rincaro dell’onere di rifinanziamento del debito pubblico.
E’ dal 1909, quando John Moody divenne il primo analista finanziario ad assegnare voti alle obbligazioni emesse da compagnie ferroviarie degli Stati Uniti, che l’importanza dei rating è cresciuta in parallelo con i mercati finanziari. Crac e scandali hanno portato a rendere obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Il “triopolio” S&P, Moody’s e Fitch dà i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati finanziari: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Tutti gli investitori del mondo si fanno guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Certi investitori istituzionali americani – come i fondi pensione e le compagnie assicurative che emettono polizze vita – hanno il divieto di acquistare titoli al di sotto di un certo rating.
Nel caso dei debitori privati, le agenzie sono in flagrante conflitto d’interessi, si fanno pagare dagli stessi soggetti a cui danno i voti. Questa fu una delle concause della grande crisi della finanza tossica: i voti Aaa venivano concessi generosamente, dietro lauto compenso, ai titoli strutturati che contenevano i mutui subprime. Diversa è la situazione per i rating sovrani: in questo caso le agenzie non si fanno pagare. Perciò le proposte di affiancare nuove agenzie governative in concorrenza col trio delle americane, hanno incontrato lo scetticismo dei mercati. La cinese Dagong, emanazione del governo di Pechino, non è considerata autorevole. Un’agenzia di rating sponsorizzata dall’Unione europea, come è stata proposta, avrebbe anch’essa un conflitto d’interessi: i mercati la sospetterebbero di essere sensibile alle pressioni della politica.
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