I medici ribelli del Bahrein: «Il mondo ora deve aiutarci»
Ali Alekri, 45 anni, chirurgo, non si è ancora ripreso dai mesi di abusi in cella: «Fratture multiple, vertigini, problemi alla vista. E tanta rabbia mista a incredulità : nel 2009 dopo l’attacco israeliano andai a Gaza per operare i feriti, da eroe oggi sono diventato un criminale. Ma quello che ho visto nella Striscia non era peggio di quanto è successo qui in Bahrein». E poi c’è Fatima Haji, reumatologa 32enne, un bimbo piccolo. Anche lei da Manama racconta al telefono di torture e abusi, dell’assurdo calvario che vede protagonisti da mesi 18 medici e due infermieri del piccolo Regno. Colpevoli secondo il tribunale militare di occupazione dell’ospedale Salmaniya vicino al centro della protesta in piazza delle Perle, furto di sangue e medicine, contrabbando d’armi, complotto contro la monarchia. Condannati giovedì scorso a pene tra i 5 e i 15 anni, liberi su cauzione dopo i primi mesi in carcere, senza vedere avvocati o parenti, torturati e poi costretti a firmare confessioni di crimini mai commessi. In realtà , dicono loro, perseguitati per altri motivi: aver curato i dimostranti feriti (30 uccisi) dall’inizio di tutto, il giorno di San Valentino; aver denunciato al mondo la repressione brutale; appartenere alla maggioranza discriminata degli sciiti, il 70% della popolazione dell’isola retta dalla famiglia reale sunnita Al Khalifa, con il sostegno (anche militare) di Riad.
«Nessuno di noi fa politica, ma tutti rispettiamo la nostra missione di medici curando chiunque ne abbia bisogno», spiega Fatima Haji, comparsa in lacrime su Al Jazeera dopo l’arrivo di un anziano ferito al pronto soccorso. E condannata (tra l’altro) per aver «venduto ai sovversivi sangue con cui simulare ferite». «Come se ce ne fosse stato bisogno — dice —. Tutti noi medici in quell’ospedale, compresi i tanti stranieri, abbiamo assistito centinaia di persone durante gli scontri. Ma hanno arrestato solo noi sciiti, per i colleghi cristiani, sunniti e indù nessun problema». Nada Dhaif concorda: «È in corso un’operazione di pulizia confessionale. Non è una novità ma questa volta hanno iniziato dall’alto, colpendo noi professionisti, colti, con contatti all’estero per il nostro lavoro. Ora le nostre sole speranze sono riposte nell’Occidente, dovete aiutare noi e il Bahrein».
Sabato, mentre si diffondeva la voce che i 20 avrebbero dovuto consegnarsi (nessuno l’ha fatto), s’è tenuta una riunione a casa di Nada Dhaif, presente quasi l’intero gruppo e gli avvocati. Insieme hanno stilato una lettera per il capo dell’Onu, Ban Ki-moon, che già aveva espresso «profonda preoccupazione» per le condanne dei medici. Il dipartimento di Stato Usa si è detto «molto scosso» dal verdetto, mentre le Ong per i diritti umani chiedono a Washington di bloccare una vendita d’armi milionaria a Manama. Appelli per una «revisione dei rapporti» sono stati rivolti al governo britannico, e più in generale pressioni diplomatiche e sui media vengono esercitate dall’Occidente sul governo dei Khalifa perché allenti la morsa. «Per mesi il Bahrein è stato dimenticato, ora è fondamentale che la comunità internazionale mantenga alto l’allarme», aggiunge Ali Alekri. Forse un primo risultato di questa attenzione, dicono i medici «ribelli», è che nessuno di loro sia stato riarrestato. Ieri l’appello in un tribunale civile è stato fissato per il 23 ottobre. «Forse riuscirò a rimanere a casa con il mio piccolo Yusef fino a quel giorno», commenta Fatima. «Sarebbe la prima bella notizia da molti mesi».
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