Guatemala, Enel rompe il dialogo

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Lo riferiva sabato il giornale guatemalteco Nuestro Diario: il direttore generale di Enel Guatemala, Oswaldo Smith, ha dichiarato che l’azienda ha già  firmato un accordo di cooperazione con il municipio di Cotzal, nel 2008, e che l’Enel riconosce solo le autorità  pubbliche. Un modo per dire che non riconosce le «municipalità  indigene e autorità  ancestrali» e ritiene di non aver nulla da trattare con loro.
Se sarà  confermata, la rottura del dialogo è una pessima notizia che potrebbe portare a nuova tensione nel Quiché. Non è una sorpresa, però: ormai tre mesi fa le comunità  indigene avevano fatto una proposta – chiedono il diritto ad amministrare il 20% dell’energia elettrica prodotta – ma la risposta dell’Enel tardava. «Le comunità  indigene non sono in principio contrarie alla diga. Ma vogliono avere voce su come vengono usate le risorse della loro terra, invece è stato fatto tutto senza consultarle», ci dice padre Clemente Peneleu, parroco di un villaggio del municipio di Chajul (insieme ai municipi di Nebaj e di Cotzal forma il cosiddetto «triangolo ixil», abitato da una popolazione maya-ixil di circa 200mila persona). Lo incontriamo a Roma, è in visita per parlare della realtà  di questa regione rurale del Guatemala, a quindici anni dagli accordi di pace che misero fine alla guerra interna che aveva insanguinato il paese negli anni ’80 («Restano irrisolti i problemi alla radice… Il 90% della terre in Guatemala è in mano al 10% della popolazione. La guerra civile ha accelerato l’espropriazione»).
Riassumiamo. Enel Green Power sta costruendo un impianto idroelettrico da 84 Mw (del tipo ad acqua fluente) che sfrutta il flusso del fiume Cotzal e dei suoi 3 affluenti. Quando entrerà  in funzione (nel primo trimestre 2012, spera l’azienda) produrrà  ogni anno 370 milioni di chilowattora. L’Enel sbandiera la sua «responsabilità  sociale»: versa alla municitalità  di San Juan Cotzal 100mila dollari annui per 20 anni per progetti sociali.
Il fatto è che le comunità  indigene non sono state consultate. Così hanno cominciato a protestare: petizioni, marce. In gennaio migliaia di persone («soprattutto donne e bambini») hanno bloccato la strada di accesso al cantiere, e hanno visto arrivare centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa, volti coperti dai passamontagna, nei villaggi «ribelli»: scena che in quella zona ricorda fin troppo bene i massacri avvenuti durante la guerra civile («L’arma del governo resta quella di terrorizzare», commenta padre Peneleu). Poi si sono fatti avanti dei mediatori, il 2 maggio c’è stato un primo incontro tra le parti. I rappresentanti indigeni e quelli dell’azienda hanno firmato un documento, davanti a un giudice di pace: tra l’altro l’Enel dunque ha sottoscritto che riconosce le «autorità  indigene ancestrali». Ora fa marcia indietro. Alle richieste delle comunità  indigene ha risposto regalando 2.000 lamiere per i tetti. Il fatto è che le comunità  indigene «non chiedono mica l’elemosina», insiste padre Peneleu: «Rivendicano il loro diritto sulle terre che abitano da secoli», riconosciuto del resto dalla costituzione del Guatemala e dalla convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La proposta di amministrare una quota dell’energia prodotta ha questo senso – l’Enel trarrà  il suo profitto, ma quale beneficio trarranno le comunità  indigene di Cotzal dallo sfruttamento delle loro montagne, foreste, fiumi nei cinquant’anni di attività  prevista della centrale idroelettrica dell’Enel? Ma è proprio questo che il governo del Guatemala (e neppure l’Enel, a quanto pare) non vogliono riconoscere.


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