Galassia black bloc
Sono poco meno di 2000. Il fondo della bottiglia. Hanno un nome e un cognome. Tutti nello stesso elenco, divisi tra destra e sinistra come se davvero in quella violenza si potesse fare una distinzione così netta. In fondo alla lista il totale dice 1.891, distribuiti in tutta la penisola, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Vivono nei centri sociali o nelle curve degli ultras. Occasionalmente in tutte e due. Possono essere insospettabili: sotto la felpa si sono scoperti anche funzionari di prefetture e impiegati modello. Calano il casco sul volto come il passamontagna degli anni Settanta. Nell’elenco può capitare di trovare qualche ex della lotta armata, finito sulle barricate per nostalgia. L’intelligence li segue da anni. Sabato scorso hanno trasformato piazza San Giovanni in un campo di battaglia, la loro battaglia. Quanti di loro arriveranno domenica nei boschi della Val di Susa?
La mappa dell’Italia violenta, gli insediamenti di quelli che per comodità vengono ormai definiti black bloc, riflettono la storia del Novecento italiano. Non è strano osservare che le regioni dell’estremismo nero sono quelle dove l’eredità del fascismo è ancora forte: il Lazio, in testa, ma anche la Campania e l’Abruzzo.
E poi la Calabria dei «boia chi molla» e l’Alto Adige degli attentati irredentisti degli anni Sessanta. Sul versante opposto la Toscana con la tradizione centenaria del movimento anarchico di Livorno. «Nel fondo della bottiglia – racconta chi indaga – ci si può entrare anche occasionalmente. Black bloc per un giorno, gente che, arrestata, dice “passavo, ho visto che c’era casino e mi sono aggregato”. Spesso ultras che hanno fatto allenamento nelle curve degli stadi».
Ma il nocciolo duro non è fatto di violenti per caso. Piuttosto di gente che pianifica scientificamente le azioni, usa i movimenti come scudo. Il fondo della bottiglia ha bisogno del suo brodo di coltura, ha bisogno di collegamenti internazionali, in alcuni casi di campi di addestramento, come ha documentato Repubblica nei giorni scorsi. In occasione degli scontri in Val di Susa del 3 luglio scorso – una giornata di battaglia con centinaia di feriti, lanci di molotov e assalti a colpi di bottiglie piene di ammoniaca – le relazioni dell’intelligence raccontano che una buona rappresentanza della black list è salita fin nei boschi di Chiomonte. «Provenivano – è scritto nelle relazioni – da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania». A questi si aggiunge «un ristretto gruppo di attivisti provenienti dall’estero, in particolare dalla Francia». Una conferma dei collegamenti e degli scambi a livello internazionale. «Ma state attenti – dicono gli investigatori – a non cercarli troppo lontano da casa. Molti black bloc sono l’altra faccia del movimento». Doctor Jekyll e mister Hide, persone che a metà di un corteo lasciano le bandiere e impugnano gli estintori. La faccia inconfessabile di movimenti che «non hanno una identità definita, nati dalla rabbia e dai tam tam del Web. Movimenti contenitore nei quali si finisce per accettare chiunque perché nessuno è titolato a selezionare chi partecipa sulla base di un programma, di una ideologia. Chiunque – dice l’investigatore – ha un buon motivo per indignarsi per qualcosa». Eccolo il brodo che serve al fondo di bottiglia. Perché l’assalto alla banca, l’incendio del blindato dei carabinieri, sono la prosecuzione del corteo con altri mezzi. Era già successo a Torino, nella primavera del 2009, alla manifestazione contro il G8 dell’università : un corteo pacifico di studenti che attraversa le vie del centro e che improvvisamente si trasforma in un esercito di black bloc pronto ad assaltare la polizia. «Non di rado – dice l’investigatore – tra coloro che il giorno dopo deploravano la violenza abbiamo individuato alcuni di quelli che il giorno prima ci assaltavano tirandoci le molotov». Perché tra i nuovi cattivi e i vecchi movimenti può scattare anche un patto di mutuo soccorso. Si legge in una recente relazione dell’intelligence: «Tra i manifestanti della val di Susa, pur contrari alla violenza, è infatti sempre più diffusa la consapevolezza che la disponibilità all’azione mostrata dalle componenti dell’antagonismo più estremo, possa rivelarsi funzionale agli scopi della protesta contribuendo a dare spessore e visibilità alle istanze del movimento».
Che la lotta contro il supertreno sia un’occasione ghiotta per gli uomini della black list è dimostrato da un grave episodio avvenuto nel 2007 quando la magistratura arrestò alla periferia di Torino Vincenzo Sisi, un sindacalista vicino ai Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo. Nel giardino di Sisi venne trovato un kalashnikov e in casa sua volantini e documenti sulla battaglia No Tav. Un tentativo abbastanza maldestro per provare a mettere il cappello su una lotta che all’epoca non praticava la violenza. Allo stesso modo movimenti poco strutturati come quelli che scendono in piazza in questi mesi possono diventare interessanti per qualche reduce del partito armato: «Seguendo e intercettando quella parte dei black bloc che ha partecipato agli scontri di Roma il 15 ottobre – dice l’investigatore – abbiamo incrociato anche personaggi legati alla galassia delle ultime Br, in particolare ai Nuclei comunisti combattenti».
Ora gli occhi sono puntati su quanto potrà accadere dopodomani in Val di Susa. Fino a che punto l’ala dura dei black bloc deciderà di alzare il livello dello scontro? «Vogliono sfidarci – dice l’osservatore dell’intelligence – ed è possibile che domenica provino a dimostrare la loro capacità militare». In realtà sarebbe un ulteriore salto di qualità . Perché di norma dopo una manifestazione violenta la reazione indignata del resto del movimento e dell’opinione pubblica spinge ad andare in piazza in modo pacifico. Era accaduto così nel novembre del 2002 a Firenze, al primo grande corteo dei «no global» dopo Genova. Una giornata trascorsa senza incidenti dopo settimane di allarmi e timori. Sono passati nove anni e non è detto che lo schema regga. L’ala dura del movimento No Tav è divisa. «Tra le diverse anime – si legge in uno recente resoconto di intelligence – si evidenziano tuttavia perplessità e divergenze in merito alle strategie da adottare… La componente maggioritaria, che fa capo al coordinamento dei Comitati valsusini e ad agli autonomi torinesi del centro sociale Askatasuna, ha espresso dure critiche nei confronti delle avanguardie anarchiche protagoniste delle azioni più radicali e violente durante l’estate». Secondo questa versione l’area autonoma teme che radicalizzando lo scontro si «possa avere una ricaduta negativa allontanando le componenti più moderate». Ma anche tra gli anarchici «sono emerse posizioni contrastanti» tra un’ala dura e una più moderata.
Se domenica, nonostante l’indignazione nazionale di questi giorni, vincerà l’ala che cerca lo scontro, vorrà dire che il partito dei violenti avrà gettato la maschera, avrà meno bisogno di nascondersi nel brodo di coltura dei movimenti. Potrà , insomma, rivendicare alla luce del sole il suo ruolo di guida violenta della protesta. E allora la black list dei 1.891 potrebbe allungarsi di molto.
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