FINE PRIMAVERA

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Ma la fine di Gheddafi, inevitabile e auspicabile dopo 42 anni di potere, non è, come molti diranno un altro anello della «primavera araba» cominciata in Tunisia e proseguita in Egitto. CONTINUA|PAGINA3 Al contrario. Quella catena – pronti a fare ammenda in caso di future smentite – in Libia si è spezzata, forse definitivamente.
Perché l’insurrezione libica non era, fin dal suo inizio, il 17 febbraio a Bengasi, per nulla simile a quella tunisina di dicembre e a quella egiziana di gennaio. In Tunisia ed Egitto erano state rivolte di massa e di popolo, soprattutto rivolte disarmate e pacifiche. La «Rivoluzione del 17 febbraio» in Libia, fin dal suo inizio, è stata un’insurrezione armata, armatissima, destinata inevitabilmente – a meno di una improbabile resa o fuga di Gheddafi, divenuta ancor più improbabile dopo l’intempestivo mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte penale dell’Aja – a trasformarsi in una sanguinosa e selvaggia guerra civile (altro che «mercenari africani»…). Che con l’intervento dell’Onu e di quella che appare sempre più la sua «agenzia militare» – la Nato -, per quanto truccato da operazione «umanitaria a protezione dei civili», ha assunto immediatamente i connotati chiarissimi di un intervento di stampo neo-coloniale. Con ben altri obiettivi, politici ed economici, che la protezione dei civili libici: un regime change, in quanto il vecchio «cane matto» di Tripoli nonostante la sua riconversione all’occidente non era considerato affidabile per un paese-chiave, all’intersezione di Medio Oriente, Mediterraneo e Africa sub-sahariana; il petrolio, tanto, di ottima qualità  e di facile estrazione; l’acqua del Grande fiume, abbondante e che presto varrà  più del petrolio.
Lo sfrenato e sospetto attivismo (basti pensare al ruolo di un personaggio come il frusto nouveau philosophe Bernard-Henri Levy) di Francia e Inghilterra ha rimandato, per chi ha un briciolo di memoria, all’avventura anglo-francese del ’56 contro il canale di Suez e l’Egitto di Nasser, piuttosto che a un’operazione di croce rossa internazionale.
L’ondata democratica che si è levata dal Maghreb al Mashreq è stata presa a pretesto dalla Nato e dall’occidente per liberarsi di un personaggio scomodo non in quanto impresentabile (si dovrebbero organizzare «operazioni umanitarie in mezzo mondo…) ma in quanto inaffidabile, in un paese «strategico». E quella libica non è stato un nuovo capitolo nel dramma ancora inconcluso e dal finale incerto della «primavera araba», ma un’insurrezione non solo armata ma etero-diretta (senza nulla togliere alla partecipazione generosa e in molti casi eroica di tanti giovani «rivoluzionari» libici, chi sembra emergere finora dal fumo della vittoria sono o vecchi residuati del gheddafismo che hanno cambiato cavallo in corsa, o personaggi legati a filo doppio e triplo agli sponsor americani e francesi, o quegli stessi islamisti, e perfino ex -ex?- jiahdisti e qaedisti, che il laico Gheddafi faceva a fette con la benedizione dell’occidente).
Non è un caso che la «guerra umanitaria» sia iniziata nella notte del 19 marzo, poche ore dopo che la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza aveva autorizzato «la protezione dei civili», con i caccia francesi a sganciare missili sul compound di Bab al-Aziziya a Tripoli dove si sperava di far secco Gheddafi al primo colpo. Né che sia finita, ieri mattina, con una delle migliaia di raid aerei della Nato sul convoglio in fuga da Sirte (a proposito: dov’era l’Onu, chi ha protetto la popolazione civile della città  sotto assedio e bombardamenti continui degli insorti per oltre un mese d’inferno?) che, con ogni probabilità  e fino a prova contraria, è stato quello che alla fine ha «beccato» il Colonnello.
Meglio che sia finita così. Per tutti. Per gli insorti, che dicevano di volerlo mandare sotto processo nella «nuova Libia» ma forse si sarebbero trovati un po’ imbarazzati dal fatto di essere – molti – ex gehddafiani doc. Per gli sponsor occidentali che dicevano di volerlo mandare alla Corte penale internazionale ma forse si sarebbero trovati leggermente in imbarazzo nel momento in cui l’imputato Gheddafi avesse ricordato i baciamano e i salamelecchi con cui fino a qualche mese fa lo trattavano e ricevevano quegli stessi che ora l’accusavano in nome dei diritti umani. Forse meglio perfino per la Cpi dell’Aja che in pochi anni ha perso ogni credibilità  nella sua trasformazione in una Corte penale dell’occidente rivolta solo contro i cattivi d’Africa o ex-Jugoslavia, un tribunale dei vincitori per giudicare i vinti di poco conto.
Con la morte del tiranno Gheddafi è morta anche la primavera araba, anche se venisse rispettato il cronogramma presentato dai vincitori – il governo transitorio entro un mese, l’assemblea costituente entro 8 mesi, una costituzione ed elezioni «libere» all’inizio del 2013 – e se alla fine «la nuova Libia» divenisse un paese «democratico», senza il temuto spettro islamista a gravare sul suo futuro.
Sembra una contraddizione ma non lo è. Era lampante che dopo essere «passata» in Tunisia ed Egitto, dopo la caduta dei tiranni Ben Ali e Mubarak, se l’ondata liberatrice e democratica fosse passata anche nella Libia di Gheddafi, niente e nessuno avrebbe più potuto fermarla. Dopo la Libia, la Siria, e poi giù dritta nel cuore della penisola arabica: lo Yemen, il Bahrein, il Qatar e le altre petro-monarchie del Golfo, fino in fondo: l’Arabia saudita, il vero obiettivo di ogni movimento di liberazione degno di questo nome. Tutti paesi e paesucoli gonfi di petrolio e di dollari, quasi sempre inventati dalle vecchie potenze coloniali – Gran Bretagna, Francia, Stati uniti – e regalati a sceicchi, emiri e re, legati contemporaneamente all’Islam più retrogrado e all’occidente più democratico, con il petrolio a fare da garanzia.
Si spiega così il ruolo sfacciato del Qatar (e della sua al Jazeera, troppo mitizzata e «caduta» sul fronte libico) nella guerra contro Gheddafi.
La primavera araba è morta in Libia, nel linkage perverso fra le petro-monarchie feudali del Golfo e l’occidente democratico accorso a salvare i valori della democrazia e dell’umanità  per salvare i valori del petrolio.


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