E per salvare la finanza dal crac 3 mila miliardi dai contribuenti

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MILANO – Il conto per il salvataggio delle banche occidentali dal crac continua ad aggiornare i suoi record. Dal fallimento della Lehman (settembre 2008) fino al 5 giugno scorso – certifica R&S Mediobanca – i contribuenti europei e americani avevano già  staccato un assegno da 2.700 miliardi per puntellare i bilanci degli istituti (privati) di credito. Una montagna d’oro pari al debito di Italia, Spagna e Grecia messe assieme. E da allora il tachimetro del salva-banche non ha mai smesso di correre: Parigi e Bruxelles hanno appena messo sul piatto 95 miliardi per evitare il fallimento di Dexia. Copenhagen ha inondato il mercato interbancario nazionale con 54 miliardi di liquidità  per scongiurare – come vaticinava il Financial stability board – la chiusura di 75 delle 90 banche danesi.
La bolletta degli aiuti pubblici alla grande finanza è arrivata così a un soffio dai 3mila miliardi in tre anni, qualcosa come 2,6 miliardi al giorno. E il pressing per convincere il nascituro Fondo salva stati a lanciare un salvagente al credito continentale dovrebbe consentire di superare in agilità  e in tempi brevi anche questa astronomica soglia.
Josè Manuel Barroso, al riguardo, è stato categorico. La valanga di soldi statali spesi per mettere in sicurezza il settore (1.270 miliardi in Europa e 1.479 negli Usa secondo i calcoli certosini di Piazzetta Cuccia) non è bastata ancora a risolvere i suoi problemi. Anzi, siamo solo all’antipasto: «Gli istituti europei devono essere urgentemente ricapitalizzati», ha ammesso mercoledì il presidente della Commissione Ue. E anche se la priorità  è procedere «con finanziamenti privati», è chiaro a tutti che alla fine, con i mercati in fibrillazione, a fare la parte del leone per tappare i buchi saranno di nuovo i fondi pubblici. Quanti soldi servono? Secondo gli analisti un’altra iniezione di liquidità  da 200 miliardi di euro circa. Quasi il doppio della cifra necessaria per salvare l’intera Grecia dal fallimento.
A mettere in ginocchio le banche – ancora convalescenti dopo la sbornia dei subprime – è stato negli ultimi tempi un uno-due da brividi: la crisi dei debiti sovrani che ha sforbiciato il valore dei titoli di stato dei paesi più a rischio nei loro portafogli e la difficoltà  a raccogliere fondi per finanziare le attività . Sul mercato, sostengono i dati della Bce, c’è un eccesso di liquidità  vicino ai 200 miliardi. Gli istituti però – preoccupati ognuno di mettere ordine in casa propria – non si prestano più soldi tra di loro e anche le altre fonti di finanziamento si sono improvvisamente inaridite: il mercato dei bond è congelato, con le emissioni di nuovi titoli scese tra giugno e settembre del 72% rispetto allo stesso periodo del 2010. E i fondi monetari americani, calcola Jp Morgan, hanno ridotto di 700 miliardi i loro prestiti alle banche europee che non sono ritenute più affidabili come una volta.
Risultato: di soldi se ne trovano pochi. E se si trovano è solo a tassi altissimi. E la stretta del credito, questo è il timore delle autorità , rischia di trasmettersi in tempi brevi sui clienti. Bloccando (e alzando il costo) dei finanziamenti a cittadini e imprese con il rischio di mandare in tilt l’economia continentale spingendola verso il baratro della recessione.
L’allarme, come testimoniano le dichiarazioni di Barroso e quelle di Jean-Claude Trichet («servono interventi rapidi per le banche», ha detto il governatore uscente della Bce) è già  rosso: la crisi di Dexia, per dire, è figlia proprio di questo circolo vizioso sulla liquidità . E qualche preoccupazione c’è anche per la situazione italiana: i big tricolori – in difficoltà  nella raccolta di fondi sul mercato – hanno iniziato a battere cassa sempre più spesso con la Bce. A settembre, ad esempio, hanno chiesto a Eurotower ben 104 miliardi di finanziamenti, un record pari al 235% in più di quanto prelevavano dalla banca centrale la scorsa primavera.
Il futuro, insomma, è già  scritto. L’Europa – pena il collasso dell’economia – non può permettersi di abbandonare al loro destino le banche facendole fallire; i privati, con le Borse in crisi, non hanno soldi per sostenerle; i fondi sovrani dei paesi emergenti si sono già  scottati le dita realizzando minusvalenze da paura sui big del credito Usa all’epoca dei salvataggi del 2008. A saldare il conto rischiano di essere di nuovo i contribuenti. E il salvagente da 3mila miliardi stanziati finora per tenere in piedi le banche rischia, purtroppo, di essere solo una caparra.


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