E ora Pechino clona i monumenti del mondo

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PECHINO. Scusi: dov’è la Città  Proibita più vicina? E un pezzo di Grande Muraglia raggiungibile in due ore? O una torre di Pisa e un Arco di Trionfo a portata di corriera, da fotografare senza salire su un aereo per l’Europa? La Cina, nel turismo, è oltre il low cost. Si muove già  nell’era in cui l’originale è un modello da scegliere in Internet e la copia diventa il reale da conquistare risparmiando più tempo e denaro possibili.
L’uovo di Colombo, per la culla del falso lusso “made in China” a prezzi da massa ex proletaria: non costringere i nuovi turisti a spostarsi nelle vecchie località  turistiche, ma trasportare direttamente le attrazioni da chi desidera ammirarle. L’affare del secolo, ma non solo. Prima di tutto l’ordine della propaganda di partito: mostrare al popolo la grandezza della millenaria civiltà  nazionale, per irrobustire l’orgoglio patriottico. Fino a ieri, per immaginare l’antico, i cinesi erano costretti al pellegrinaggio a Pechino. Itinerario classico e obbligato: Città  Proibita e piazza Tiananmen, Grande Muraglia a Badaling, Palazzo d’Estate, Tempio del Cielo, torri del Tamburo e della Campana, prima di raggiungere Xian per impallidire davanti all’esercito di terracotta. Da oggi invece, si gira pagina: copie di tutti i tesori nazionali vengono seminate in decine di anonimi villaggi rurali dell’interno, sparse nelle città  di seconda fascia delle regioni industriali, o concentrate nelle periferie delle nuove megalopoli. Un po’ di bellezza per tutti i compagni, in nome dell’uguaglianza.
Nella Cina trasformata in un’immensa Disneyland di se stessa, le copie delle colossali opere dell’epoca imperiale risorgono a grandezza naturale, indistinguibili dagli originali. A un povero villaggio sperduto tra le risaie, basta così ricostruire quattro hutong della capitale, circondati da un lago con ponticelli simil-Ming, o riprodurre una grotta della Lunga Marcia, per assicurarsi cinquantamila visitatori di Stato all’anno. Il simbolo è Huaxi, regione del Jangsu, considerato oggi il paese più ricco della nazione. Ambiva a diventare la mecca turistica della nuova classe media. In tre anni, al posto del vecchio mercato contadino, ha clonato Città  Proibita e Grande Muraglia, ma pure un Arco di Trionfo, Campidoglio, Opera House di Sydney e un toro di Wall Street in oro massiccio. Con 470 milioni di dollari ci ha aggiunto il Longxi International Hotel, copia perfetta dell’Adlon di Berlino, e da sabato aprirà  i battenti quello che promuove come «tutto il mondo in un villaggio».
Nell’Occidente ammalato di storia si può essere colti da un vago senso di ripugnanza. Per i cinesi invece è una meraviglia, ma soprattutto un fantastico affare: tutto nuovo di zecca, pochi yuan, qualche ora di treno, e si risparmiano i sacrifici per una vacanza vera nel passato. Un successo. Tale che il partito, entusiasta nel veder sorgere Templi della Terra in serie dentro squallidi distretti industriali, ha dato il via libera all’internazionalizzazione del capolavoro facsmile a portata di weekend aziendale: Venezie con Canal Grande e gondole a un’oretta da Shanghai, Torre di Londra e Piccadilly Circus a un tiro di schioppo da Chengdu, una porta di Brandeburgo e una Torre Eiffel all’ingresso di Hangzhou, o una fiammante piramide di Cheope oltre quota tremila, nello Yunnan. Tutta la Cina museificata e sotto casa, un’infinita scenografia turistica del regime e del pianeta, da girare come comparse in un film 3D: sarà  pure il business del futuro e un mondo da scoprire, ma ricorda tanto uno spettrale mausoleo alla memoria. Non quello di Mao, ci mancherebbe: resta l’unico gioiello politicamente proibito, con copyright a prova di comitiva.


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