E ora Broadway racconta Jobs “Una grande occasione mancata”

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New York.  “La metafora si sposta”, con questa frase Daisey sottolinea ogni cambio di tono e di scena nel suo travolgente monologo. Dove il geniale autore-attore alterna il suo tributo appassionato e sincero al “culto globale di Apple”, e il reportage-verità  dal fronte dello sfruttamento capitalistico. No, non sono robot, ma decine di migliaia di operaie e operai cinesi, molti adolescenti di 13 e anche 12 anni, quelli che Daisey ha visto con i suoi occhi, ai cancelli della fabbrica Foxconn di Shenzhen.
Straordinario personaggio, questo Daisey, una sorta di Michael Moore del teatro (anche per la stazza fisica), capace di regalare a un pubblico stordito e ipnotizzato due ore e mezza di puro spettacolo, one-man show, dove i ribaltamenti sono violenti: dall’affabulazione gentile e suadente (quando è Jobs il protagonista) al giornalismo di denuncia che osa affrontare il “lato oscuro” di Apple. “Uno dei grandi contastorie del teatro contemporaneo”, così Daisy è stato definito dal New York Times.
Non c’è opportunismo macabro dietro i tempi di uscita: in realtà  questo spettacolo era in gestazione da molti mesi, una versione preliminare andò in scena a Berkeley, solo la coincidenza ha fatto sì che l’uscita nobile a New York (Public Theater, off-Broadway) sia avvenuta così a ridosso della scomparsa del più grande talento creativo della tecnologia. Daisey accenna rispettosamente anche alla morte di Jobs; si espone in prima persona: lui è un vero fan di Apple, uno dei fedelissimi della prima ora. Può parlare con cognizione di causa di questa “religione” autentica, che ha cambiato il nostro mondo, il nostro modo di vivere e comunicare, ci ha imposto nuovi standard di stile nel design, ci ha catturati dentro un universo razionale ed autoreferenziale, regalandoci per qualche centinaio (o migliaio) di euro un delirio di onnipotenza: pochi gesti del polpastrello che sfiorano lo schermo dell’iPad o il display del telefonino ed eccoci convinti di “sapere tutto ciò che sa Google, o Wikipedia”. Lo si sente arrivare ai confini dell’orgasmo, lui che ha vissuto tutta l’escalation dei successi di Jobs fin dai primi computer Apple I e poi Macintosh.
Racconta nei dettagli – con il ritmo di un thriller – le congiure interne all’azienda, la clamorosa defenestrazione di Jobs, il lungo esilio e poi la riscossa del suo ritorno al vertice, assortito di dettagli crudeli sul suo trattamento dei manager (li passava facilmente dalla categoria di geni a quella di imbecilli). La scenografia è perfetta: in tutto lo spettacolo Daisey sta seduto dietro un tavolo sottilissimo e luminoso, con pochi fasci lineari di laser che s’illuminano alle sue spalle, la replica teatrale dell’estetica zen che accompagnava gli happening di Jobs, gli show di lancio dei suoi nuovi prodotti. C’è un amore vero, perfino erotico, che lega l’autore-attore all’oggetto del desiderio – ogni nuovo gadget di Apple – e al suo creatore. “Adoro perfino il profumo di questi oggetti, quando li estraggo per la prima volta dai loro imballaggi eleganti”. Un amore deluso, si conclude con una condanna: Jobs è stato una grande occasione mancata. Se c’era uno che aveva tutte le risorse necessarie – potere e coraggio, denaro e visione, egemonia e libertà  – era lui: avrebbe potuto usarle per cambiare non solo un paradigma tecnologico, ma un modello di capitalismo. “Se avesse deciso di sposare la trasparenza vera, sulle condizioni di lavoro dei suoi operai in Cina, l’intera industria del pianeta avrebbe dovuto adeguarsi e imitarlo”: proprio come lo ha scimmiottato in tutte le sue rivoluzioni digitali.
Daisey è andato in persona a Shenzhen, per costruire la sua sceneggiatura. Non lo hanno lasciato entrare dentro la Foxconn (920.000 dipendenti, il più grande complesso elettronico del mondo, una città -bunker); ma è riuscito a intervistare tanti dipendenti. Ha visto le mani orrendamente deformate degli operai non più giovani, relitti umani cacciati dalla catena produttiva. Ha raccolto le testimonianze sugli orari di lavoro – 14 ore al giorno – e sugli scioperi repressi brutalmente. “Ho visto le ragazze e i ragazzi che potrebbero costruire la democrazia in Cina, ma sono troppo occupati a tenere i ritmi massacranti della produzione”. Si commuove alla scena del vecchio operaio cinese che carezza l’iPad, vede funzionare per la prima volta quello schermo che lui lucidava in migliaia di pezzi, e confessa: “E’ magico”. Questa Agonia ed Estasi è il culmine di una stagione che ha visto un potente ritorno di teatro impegnato: da Enron a Mountaintop su Martin Luther King. Daisey è il migliore di tutti perché non fa solo spettacolo: “Uscendo da qui non potrete essere più gli stessi. Se rinunciate a interrogarvi, se non vi chiedete cosa c’è dentro e dietro questa tecnologia, vi condannate a vivere una vita semi-cosciente”.


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