E la tenda diventa simbolo della protesta “Precaria, flessibile, ma capace di resistere”

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ROMA – Ieri mattina si sono svegliati in un’alba di sole e di traffico, con i cornetti caldi regalati da qualcuno e una cassa d’acqua donata da un barista solidale. Quindici tende per una trentina di coraggiosi, le “Quechua” istantanee, due minuti per montarle, sessanta secondi per smontarle. Sacchi a pelo, coperte e materassini di gomma, la notte è fredda, attrezzatura veloce, flessibile, per restare ma anche per andarsene, yes we camp, qui o altrove, i “draghi ribelli” si muovono veloci e leggeri, vanno, colpiscono e tornano, e i gradoni neoclassici del Palazzo delle Esposizioni di Roma sono un set unico al mondo. Di qua Bankitalia, di là  il ministero dell’Economia, in mezzo questa manciata di tende, sembrano fragili e minuscole, in realtà  sono resistentissime, il giunco che si piega ma non si spezza, basta che gli accampati si muovano e la città  si ferma.
«Noi viviamo in appartamenti in prestito, abbiamo lavori in affitto, possediamo denaro per non più di una settimana – racconta Alessandra, 22 anni, che studia Scienze Politiche e nel via Nazionale camp dormirà  fino alla notte di sabato – ed è come se in tenda ci vivessimo da sempre, è la forza del nostro movimento, non ci stanchiamo, torniamo sempre, ci possiamo accampare dappertutto, per questo forse, riusciremo a cambiare qualcosa». Ieri notte poi c’era la luna piena, quanto basta per riposare qualche ora, ma all’alba il popolo delle tende era in piedi a ripulire il sagrato del palazzo delle Esposizioni, la mostra sul “Realismo socialista” chiusa al pubblico fino a data da destinarsi. Così davanti ai manifesti di due massicci proletari sovietici, di prima mattina appaiono i cartelli che spiegano perché gli “indignados” chiedono il default selettivo e attaccano le agenzie di rating e i paradisi fiscali. I rifiuti sono rigorosamente divisi in raccolta differenziata, mentre dal palazzo di fronte i lavoratori di un call center calano un cestino con 20 euro per sostenere gli autobattezzati “draghi ribelli”, che dormono davanti a quel museo inaugurato nel 1883 e dedicato alle Belle Arti.
«Noi siamo le piazze greche, le piazze spagnole, siamo il Giappone contro il nucleare, le nostre tende sono presidio permanente di democrazia», dice Elena quando il camp si trasforma in assemblea, e sulla facciata di quella che era la sede della Quadriennale viene issato un lunghissimo striscione con un dragone nero dipinto tra la folla da Marino Melarangelo, artista. Vincenzo un lavoro ce l’ha, è maestro pizzaiolo, precario, lui è l’anima dell’accampamento, si occupa di sorveglianza e rifornimenti, distribuisce cous cous alle verdure cucinato in casa per chiunque lo voglia. «La tenda non mi fa paura, vivevo all’Aquila e sono stato sfollato due anni. La polizia di notte ci ha presi di peso e trascinati qui, allontanati dai palazzi della ricchezza, ma non ha ottenuto nulla, noi presidiamo un museo, un simbolo della cultura, e intorno a noi c’è soltanto solidarietà ».
Chi porta una bottiglia d’acqua, chi un cartone di latte. Chi infila una banconota nella cassetta con scritto “rivoluzione globale”. Non c’è astio tra i commercianti di questa monumentale via dello shopping. «Loro potrebbero essere i nostri genitori, i nostri fratelli – spiega Marina mentre arrotola il sacco a pelo in cui ancora dormirà  stanotte – li avete visti i negozi, sono vuoti, nessuno entra, nessuno compra, soltanto qualche turista, questo vuol dire che il titolare finirà  nelle mani degli usurai e la commessa sarà  licenziata». Analisi lucida, spietata, amara, Marina è laureata in Economia e in attesa di dottorato, «sono ospite nella tenda di una mia amica, è stata dura, era umido, ma sono abituata a campeggi e spostamenti, divido la casa con altri 4 studenti, ho dormito nelle facoltà  occupate, sulle spiagge, ero in Spagna con gli “indignados” io voglio un futuro, non ho paura».
Dal camp dotato di eccellente sound system arrivano le voci di Gaber e di De Andrè. Impossibile non cantare anche un po’, a mezza voce, soprattutto quando la voce di Faber racconta di “Geordie”, che rubò sei cervi nel parco del re… Gianluca fa lo psicologo e in braccio tiene Mattia, 7 mesi: «Mia moglie ed io siamo precari, ma Mattia l’abbiamo voluto lo stesso. Non dobbiamo rinunciare, altrimenti avranno vinto loro».


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